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Nei mesi della ripresa delle negoziazioni fra il Regno del Marocco e il Fronte Polisario, il reportage ripercorre la storia del conflitto e le responsabilità della Comunità Internazionale.
Il paesaggio si fa sempre più arido, gli arbusti diminuiscono a ogni chilometro che ci si lascia alle spalle. È palese anche all’occhio nudo, sembra che non ci sia nulla. Sembra di stare in attesa, sulla soglia di un limbo in cui tutto succede silenziosamente; di cui nessuno sembra sapere nulla. In cui l’unico rumore assordante sono gli spari della lancetta dei secondi: il tempo che passa. Sottoterra, come per miracolo, qua e là cresce il tartufo, che con gli arbusti vive in simbiosi. Una ricchezza offerta in dono della terra che dopo le piogge di settembre sprona gli uomini e le donne alla raccolta. Ma non c’è niente di scontato, né alla vista né ai passi del camminare, perché fra gli arbusti e fra i tartufi si annidano infinite insidie, le mine antiuomo: il fuoco, il trambusto, l’esplosione. Al principio le mine costeggiavano il muro di sabbia e cemento lungo 2700 chilometri, poi il tempo, l’acqua e il vento le hanno sparse ovunque. I tartufi sono similitudine triste di un paesaggio e una cultura, l’immagine di una ricchezza proibita.
Le mine, un muro di separazione che copre più della distanza fra Oslo e Palermo, un popolo imprigionato fra l’occupazione e l’esilio, una colonizzazione in atto che ha già raggiunto il cambiamento demografico, una politica di apartheid, un’ingiusta distribuzione dell’acqua e un saccheggio delle risorse naturali presenti sul territorio. Non è la Palestina, anche se avrebbe potuto esserlo e nessuno sarebbe rimasto sorpreso. Non è nemmeno il confine fra il Messico e gli Stati Uniti o alcune zone di passaggio obbligato nella tratta dei migranti verso l’Europa, anche se a qualcuno piacerebbe. Si tratta del Sahara Occidentale, territorio non autonomo occupato militarmente dal Marocco dal lontano 1975, quando la Spagna di Franco – precedente forza colonizzatrice – lo cedette al monarca Hassan II, padre dell’attuale Re Muhammad VI. Un territorio occupato e arido in un conflitto che non fa rumore, lontano dall’agenda dei politici, dei media e spesso anche dei movimenti sociali, così che la lancetta dei secondi ha raggiunto i 44 anni, lasciandosi alle spalle una guerra, migliaia di morti, centinaia di desaparecidos e forse anche la speranza.
Protettorato spagnolo dal 1883, nel 1963 le Nazioni Unite lo aggiunsero alla lista dei territori non autonomi e poi il 16 ottobre 1975 la Corte Internazionale di Giustizia stabilì che non esisteva alcuna relazione fra il Regno del Marocco o la Mauritania e il Sahara Occidentale, e che pertanto il popolo sahrawi aveva il pieno diritto di decidere di se stesso e del proprio futuro. Era il diritto all’autodeterminazione. Una prerogativa che urtava però violentemente con il consolidamento di un nuovo nazionalismo sognato da Re Hassan II, intenzionato a stringere il popolo attorno al concetto di “Grande Marocco”. Così, il 6 novembre 1975, 300’000 persone accompagnate da soldati e blindati, furono mobilitate e marciarono all’interno dei territori del Sahara Occidentale, allora ancora sotto amministrazione spagnola. Fu la Marcia Verde, una dimostrazione di forza e un atto simbolico che effettivamente sembrò dare ragione alle mire espansionistiche del Re: le truppe spagnole non si opposero e poco dopo si ritirarono. Nel non rispetto della decisione della Corte Internazionale di Giustizia, l’Accordo di Madrid del 14 novembre 1975 sancì il trasferimento del potere amministrativo al Marocco e alla Mauritania. Da parte sua, il Fronte Polisario, il movimento sahrawi di liberazione nazionale nato nel maggio 1973 con l’obiettivo di lottare contro il potere coloniale spagnolo, non riconobbe, insieme all’Algeria, l’Accordo di Madrid, dichiarò guerra a Marocco e Mauritania e il 27 febbraio 1976 annunciò la nascita della Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi. Nel 1979 la Mauritania firmò la pace con il Fronte Polisario e fu allora che il Regno del Marocco occupò anche questo ulteriore terzo di territorio, ottenendo di fatto il controllo dell’intera area. La guerra continuò per altre 12 anni, uno scontro armato impari inquinato con innumerevoli violazioni dei diritti umani ai danni quasi esclusivamente della popolazione civile sahrawi, violazioni che nella maggior parte dei casi rimangono impuni e spesso ancora in atto.
Nel 1991, le Nazioni Unite intervennero e diedero una scossa al conflitto, proponendo e ottenendo
da entrambe le parti un Cessate il Fuoco e l’organizzazione di un Referendum per l’autodeterminazione, in cui il popolo sahrawi avrebbe dovuto votare per decidere se accettare o meno l’annessione al Marocco. Nell’aprile del 1991 venne creata la MINURSO, missione dell’ONU priva del mandato di monitoraggio dei Diritti Umani ma responsabile di sorvegliare il rispetto del Cessate il Fuoco e dell’organizzazione del Referendum: la sua permanenza nella regione era inizialmente stimata a qualche mese, ma la lancetta dei secondi ha continuato a sparare e lasciare vittime anche quando il conflitto si è fatto silenzioso: sono passati 28 anni.
Un Cessate il Fuoco che sembra essere stato scritto con tre lingue diverse, quali sono l’ḥassāniyya l’arabo mauritano parlato nel Sahara Occidentale – la darija – variante orale diffusa in Marocco – e il lessico intricato della comunità internazionale. Lingue e interpretazioni diverse di uno stesso accordo, che se per il Fronte Polisario significava la possibilità di una soluzione diplomatica, per il Marocco significava tempo, un’arma letale in grado di convincere anche l’ONU, intenzionata del resto a collaborare con il sovrano Muhammad VI sui tre assi dell’alleanza: il contenimento dell’immigrazione africana, la lotta al narcotraffico e al terrorismo. Così, la MINURSO si è inceppata nell’identificare chi avrebbe dovuto votare nel Referendum e il Regno del Marocco ha messo in atto una vera e propria colonizzazione del territorio occupato, offrendo incentivi a migliaia di famiglie marocchine affinché si trasferissero nel Sahara Occidentale. Ciò è stato accompagnato da politiche discriminatorie nei confronti della popolazione sahrawi, che fra l’epoca della guerra e quella post conflitto armato è stata posta di fronte alla tragica scelta fra una vita in un regime di apartheid sotto occupazione militare o l’esilio. Così non solo la demografia del Sahara Occidentale è cambiata, ma anche la stessa geografia: il muro più lungo e minato del mondo che il Marocco ha costruito a partire dal 1980 separa ancora oggi i territori occupati da quelli liberati gestiti dal Fronte Polisario, più limitati e privi di qualsiasi risorsa naturale. La popolazione, già divisa da quella barriera, è stata in buona parte costretta a fuggire in Algeria, dove vicino a Tindouf sono nati e cresciuti a dismisura i campi profughi che portano il nome delle città del Sahara Occidentale occupato: la capitale El Ayoun, Dakhla, Smara, ecc. Ci vivono approssimativamente 173’000 persone, quasi completamente dipendenti dagli aiuti umanitari internazionali.
Nel novembre 2010, dopo l’Intifada del 1999 e quella di fatto permanente dichiarata nel 2005, è scoppiata ciò che molti sahrawi intervistati definiscono la rivolta della dignità, e che molti in Occidente hanno considerato essere la vera scintilla della primavera araba: Gdeim Izik. Di quel mese di rivolta, oltre ai morti, ai feriti e ai prigionieri politici sparsi nelle carceri in Marocco, oggi rimane la consapevolezza del popolo sahrawi di sapersi organizzare. Rimane però anche la marginalizzazione e la discriminazione, l’assenza quasi totale di diritti e di libertà: basti pensare chi ha avuto il coraggio di parlare con chi scrive questo articolo lo ha dovuto fare nel quadro di una riunione “clandestina” ed è poi stato vittima di perquisizioni e interrogazioni lungo tutta una notte; chi ha raccolto le testimonianze è stato messo in stato di fermo dai servizi segreti del Marocco ed espulso dal Territorio Occupato.
Fra il 5 e il 6 dicembre 2018, su invito dell’inviato della ONU per il Sahara Occidentale Horst Köhler, si sono svolte presso le Nazioni Unite a Ginevra due giornate che hanno sancito la ripresa, a sei anni di distanza, delle negoziazioni fra il Fronte Polisario e il Marocco, sotto la sorveglianza dei paesi vicini Algeria e Mauritania. Un incontro quasi dovuto, dopo che il precedente mese di aprile il Consiglio di Sicurezza aveva deciso di prolungare il mandato della MINURSO nella regione di soli sei mesi. Il resoconto offerto dall’ex Presidente della Repubblica Federale tedesca è stato scritto in linguaggio diplomatico, riportando una soddisfazione generale per la ripresa dei dialoghi e per l’accettazione da entrambe le parti di tornare a parlarne alla fine di marzo del 2019. Un primo incontro positivo e propositivo, in cui si è riconosciuto che lo status quo non è un’opzione accettabile e che la cooperazione pacifica è il cammino da seguire. Un incontro in cui ci si è detti che la soluzione al conflitto sarebbe un contributo fondamentale per il miglioramento della vita di chi abita nella regione. La speranza è che nella prossima tavola rotonda si cominci a parlare per davvero: della questione dei prigionieri, delle sparizioni forzate, dei Diritti Umani, quelli veri. E di ciò che rimane al centro del dipinto: l’autodeterminazione, un concetto forte che in prospettiva libertaria non è di certo riducibile alla creazione di uno Stato-Nazione, ma che abbraccia le spinte emancipatrici dei popoli oppressi e configura una nuova prospettiva per i movimenti di liberazione.
Finora è sicuramente poco e le parole della diplomazia rischiano di incastrarsi fra i secondi e la lancetta che li percorre. Ma è comunque un passo, che può quantomeno essere fondamentale per tornare a parlare di un conflitto al centro degli interessi geopolitici internazionali, per fare appello alla solidarietà, quella vera e che rimane fuori dai palazzi. L’ultima chiamata per evitare la guerra, il genocidio di un popolo dimenticato che cammina in bilico fra il tartufo e le mine antiuomo.