La domenica non e’ un giorno pericoloso. Per i cristiani e’ il momento sacro della messa, quello in cui il tempo si intreccia con il mito e ritorna alle origini. Per gli ebrei e’ semplicemente il giorno dopo lo Shabbat. Per i palestinesi, invece, la domenica e’ il primo giorno della settimana, quello in cui anche i ragazzini dei villaggi piu’ sperduti hanno l’obbligo di presentarsi a scuola. La domenica non e’ un giorno pericoloso, o almeno non lo e’ tanto tanto quanto il sabato, quando la religione si fonde con l’odio e allora bisogna stare attenti.
E’ gennaio in Palestina, inverno pieno anche se oggi il sole scalda e sembra quasi primavera. Come a voler benedire la settimana nata da appena qualche ora, come a voler sciogliere la brina sull’erba e nutrire le capre dei pastori. Poi ci pensera’ il latte, l’uomo e il formaggio, a sfamare le famiglie.
Un’auto con targa gialla si avvicina rapida sull’unica strada che collega una piccola citta’ a un minuscolo villaggio. Il telefono di un pastore squilla, i suoi occhi si agitano e il respiro si affanna. Un gesto e una parola, e subito il figlio adolescente corre di casa in casa ad avvertire i padri affinche’ siano pronti a proteggere i bambini e le bambine, le madri e gli animali. Ora il minuscolo villaggio si fa denso di rumori, grida e confusione: piu’ del fumo che esce dalle stufe e del suo odore amaro di legna bruciata. L’auto con targa gialla avanza, sorpassa le prime case del minuscolo villaggio e pare diretta a quelle piu’ in alto, dove d’un tratto tutto tace e sembra non esserci piu’ nessuno: nascosti dietro un muro, un cespuglio o una stalla, gli occhi dei paesani sbirciano fugaci quel colore acceso di una minaccia feroce.
Nessuno la aspettava proprio oggi, nella domenica che segue lo Shabbat, e forse e’ proprio questo che alimenta il terrore che aleggia nell’aria e che nei secondi dell’attesa diventa elemento comune: presenza costante, filo di ferro spinato che unisce gli uomini e lega ormai troppe generazioni. L’auto, una jeep aggressiva, s’arresta a pochi metri dalla prima casa, quella in cui le api di donna Najiyeh producono del miele dolce e delizioso, giallo ambra con sfumature di rosso scuro; proprio come il colore della terra questa mattina. Quattro dei cinque uomini aprono la porta e scendono in strada; mantengono le spalle strette davanti al cruscotto, come a volersi proteggere. Forse anche loro hanno paura. Osservano il minuscolo villaggio ma non si muovono. Intanto, fra una casa e l’altra, un bambino scappa alla presa della madre e copre di corsa una manciata di metri. Si alza un rimprovero furioso, fatto di quella rabbia che e’ sfogo della paura.
Passano i minuti e non succede nulla: il villaggio guarda l’auto, vede una targa gialla e una minaccia seria; l’auto guarda il villaggio, e fatica a distinguere le case di terra e cemento dal paesaggio naturale della collina. Come se fra i muri e il terreno ci fosse una continuazione omogenea e i due sapessero rispettarsi, sapessero vivere insieme. E cosi’ forse l’auto vede proprio solo una collina, anche se in realta’ lo sa che lassu’ qualcosa si muove.
Forse perche’ e’ domenica e non sabato, o forse soltanto perche’ non era il momento, i quattro uomini tornano a bordo e l’auto si allontana per la stessa strada da cui era venuta. L’aria nel villaggio si distende e anche i gatti randagi ricominciano a miagolare nella speranza di elemosinare qualche pezzo di pane secco. Eppure rimane forte la consapevolezza che la targa gialla potrebbe un giorno tornare e non fermarsi. Potrebbe portare uomini armati e determinati a bruciare gli ulivi e uccidere le capre, picchiare i padri di fronte alle madri e ai bambini, e infine rubare anche quella terra cosi’ simile al miele. Potrebbero tornare fra un anno o anche due, oppure prima di sabato prossimo.
Yanoun e’ il nome del minuscolo villaggio, sedici case e ottanta paesani, distante quasi un’ora di cammino dalla citta’ di Aqraba, parte del distretto di Nablus. Un villaggio di pastori e di capre situato in una vallata stretta fra le colline circostanti, separato a meta’ da un’unica casa: quella di donna Najiyeh e delle sue api, che segna la frontiera fra Yanoun alto e Yanoun basso.
Un’altra frontiera, ben diversa da quella del paesaggio e delle case, e’ stata imposta dal governo occupante israeliano tempo addietro, quando dichiaro’ Yanoun basso appartenente all’area B (amministrazione civile palestinese e controllo militare israeliano) e Yanoun alto all’area C (completo controllo civile e militare israeliano).
Significa che se il tetto di una stalla o di una casa di Yanoun alto crolla, non potra’ piu’ essere riparato, perche’ nessun palestinese ha il diritto di ammassare piu’ di due pietre nell’area C: sarebbe edificazione illegale. Significa che le case di Yanoun alto hanno ricevuto, chi prima e chi dopo, un ordine di demolizione, e che un bulldozer israeliano potrebbe presentarsi da un momento all’altro e distruggerle una a una. Nessuno sa se cio’ avverra’ fra un anno, fra due oppure prima di sabato prossimo, ma dai villaggi vicini, quelli ugualmente costretti nell’area C, corre voce che i soldati amano irrompere di sera dopo il tramonto, specie se piove e fa freddo. Poi le famiglie dovranno arrangiarsi, dovranno fuggire altrove oppure continuare a vivere nelle proprie macerie. Nell’attesa, possono tentare di andare avanti; anche se il terrore aleggia nell’aria, anche se il filo di ferro spinato serra la presa e sfrega la pelle.
Yanoun e’ un villaggio minuscolo che sembra un piccolo paradiso: gli ulivi coprono la vallata e i piedi delle colline, fino a un’ampia radura da cui la sera si intravedono le montagne della Valle del Giordano. Quella in cui fino a qualche anno fa i beduini conducevano una vita nomade, camminavano al ritmo delle stagioni e degli animali.
Rashed, il sindaco del villaggio, non e’ d’accordo: dice che Yanoun non e’ un paradiso, dice che non lo e’ piu’. Rashed dice che Yanoun sarebbe un paradiso se lui e gli altri paesani potessero raggiungere la cima delle colline circostanti e conoscere l’orizzonte, come facevano suo padre e suo nonno, e come faceva anche lui quando era bambino. Ora sulla cima delle colline circostanti ci sono delle piccole colonie israeliane di alcune centinaia di abitanti, videosorvegliate e securizzate con del filo di ferro spinato. All’inizio era un’antenna elettrica, poi una tenda che si e’ trasformata in baracca e infine in casa prefabbricata. Nel tempo, a questa se ne sono aggiunte altre e altre ancora, fino a coprire tutta la cresta delle colline, mentre nuove strade accessibili a sole auto con targa gialla – quelle dei coloni israeliani o dei militari – sono state costruite tutt’intorno.
Yasser, un pastore di Yanoun alto, aveva cinquanta pecore. Oggi ne ha quindici: molte le ha dovute vendere al mercato di Aqraba per potersi permettere il mangime utile a sfamare le altre. Se nuove terre verranno confiscate e neanche i primi metri delle pareti delle colline potranno piu’ offrire erba al pascolo, Yasser dovra’ privarsi anche degli ultimi animali. Dovra’ rinunciare al suo lavoro e a quello dei suoi padri, dovra’ trovare un altro modo per sfamare i suoi figli. Probabilmente dovra’ lasciare il minuscolo villaggio e abdicare alla sua identita’.
Rashed, sguardo profondo e un po’ malinconico, dice che gli israeliani vogliono rinchiudere uomini e animali in una gabbia. Una prigione a cielo aperto che giorno dopo giorno si fa piu’ stretta ed opprimente.
Yanoun e’ un villaggio in prigione, sorvegliato a vista dalle torri di controllo delle sei colonie israeliane che si impongono sulle colline palestinesi tutti’intorno: Itamar, Yizhar, Har Bracha, Ofra, Eli e Shilo. L’auto dalla targa gialla proveniva quasi sicuramente da lassu’, e per gli abitanti di Yanoun e’ immagine di una minaccia incisa nella memoria. Nei ricordi di tredici anni fa, quando i coloni israeliani discesero le pendici delle colline e con la forza costrinsero tutti gli abitanti a fuggire altrove. Rashed ricorda quei momenti: “Venivano ogni sabato sera, di notte, con i cani e le pistole. Salivano sui tetti delle case. Picchiavano gli uomini di fronte ai bambini. Un sabato dissero che sarebbero tornati la settimana successiva, e che entro allora tutti avrebbero dovuto lasciare il villaggio. E cosi’ tutti lasciarono le proprie case e i propri passati durante quella settimana.” Anche la piccola scuola dovette chiudere, cosi’ che un altro villaggio palestinese, l’ennesimo, scompariva dalle mappe della geografia. Anche se forse, per alcuni, non era mai esistito.
Grazie pero’ alla pressione della comunita’ internazionale e grazie al lavoro svolto da attivisti locali oltre che dal gruppo pacifista israeliano Ta’ ayush, gli abitanti di Yanoun ebbero modo di tornare nelle loro case. Da allora, la presenza di internazionali nel villaggio – ventiquattro ore al giorno durante tutti i mesi dell’anno – garantisce un minimo di protezione e permette ai bambini e ai pastori di convivere con il terrore, di resistere all’occupazione. Permette di continuare a vivere nonostante i ciclici attacchi dei coloni e dei soldati israeliani, di coltivare la poca terra ancora a disposizione e di sfamare le poche capre rimaste.
Qualcuno fra i paesani ammette che dopo tanti anni, per i palestinesi l’“anormalita’ e’ diventata normale”. E’ la realta’ di un popolo e di un’identita’ senza spazio.
Yanoun e’ un villaggio minuscolo e molto fortunato, perche’ ancora esiste e resiste al terrore della lenta avanzata israeliana. Un microcosmo che si fa specchio di una verita’ ignorata da molti e da troppi, dentro e fuori la Palestina1948.
Centinaia di villaggi simili a Yanoun non esistono piu’: al loro posto, targhe gialle e prefabbricati, oppure avamposti militari. I palestinesi sono dovuti fuggire altrove, nelle citta’ dell’area B; molti di loro hanno dovuto vendere gli animali per permettersi un alloggio modesto, altri hanno dovuto distruggere le proprie case prima che lo facessero i bulldozer israeliani: non avevano i soldi per pagare in seguito la tassa beffarda sulla demolizione. Alcuni, invece, sono rimasti a vivere fra le mura sventrate, riparando sotto teli di plastica e inseguendo il calore degli umani oltre a quello del fuoco improvvisato.
Sono rimasti perche’ non avevano nessun posto dove andare; sono rimasti perche’ quello e’ il posto dove stare. E molti fra loro si ostinano a ripetere che “le occupazioni passano, le terre e i popoli rimangono”.
NB: Per rispetto e sicurezza, i nomi delle persone sono interamente inventati.