L’antropologia dell’arte ci aiuta a capire la curiosità e il giudizio dell’Occidente verso l’Altro e i suoi oggetti.
Una statuetta in legno-plastica, un ciondolo di argento falso, una maschera marrone scuro: chi non ha mai comperato un souvenir, magari al termine di un viaggio lontano o di un’esperienza unica? Il souvenir è un prodotto di consumo caricato di un valore particolare, poiché si fa immagine di un paese e di chi lo abita, di una tradizione e di anni di storia. È una fotografia, in fin dei conti, che rivela un’alterità celando al contempo la realtà. E, soprattutto, è il risultato di come una cultura possa rinchiudersi in un oggetto costruito secondo i gusti del turista.
Il souvenir è forse soltanto un capriccio, ma può essere spunto di riflessione antropologica sull’arte etnica, qui intesa come insieme della produzione artistica extra-occidentale. Se è vero che l’arte è specchio delle pulsioni che animano una società, conviene guardare indietro nel tempo per decifrare la percezione occidentale degli oggetti provenienti da altrove e della cultura indigena a cui essi appartengono. Si rivela così un complesso rapporto fra Noi e l’Altro, tematica questa che è tuttora al centro delle riflessioni nell’ambito dei musei etnografici contemporanei.
Partiamo dal XIX secolo, epoca delle colonizzazioni dell’Africa. Sull’onda della curiosità per i popoli extra-europei, si avvia un intenso processo di raccolta e accumulo di oggetti provenienti da Sud e mai visti prima, rinchiusi ora nei musei di storia naturale o negli istituti coloniali. Al di là del semplice interesse, l’idea è naturalmente quella di raccogliere e classificare per conoscere e controllare il diverso. L’apice viene raggiunto nel momento in cui si decide di esporre al pubblico anche esseri umani, i quali vengono ora trattati alla stregua di animali da circo o di oggetti museali. Uomini e donne africani insieme ai cosidetti “freak” (persone menomate oppure portatrici di hanidap fisici) diventano espressione dell’Alterità e oggetto in esame per l’Occidente. Presto si diffonde lo stereotipo del “buon selvaggio”, al quale si sovrappone il giudizio di valore che vede in questo modello di paragone esibito al pubblico la conferma della superiorità dell’Occidente rispetto ai popoli barbari. Dall’alto al basso, il mondo civilizzato osserva l’Altro rinchiuso in una gabbia: lo idealizza e insieme lo compatisce. Sulla stessa scia, si sviluppano i primi musei di etnografia: Dresda (1875), Parigi (1882), Londra (1883). L’arte etnica è classificata ed esposta secondo una linea evolutiva in cui l’oggetto diventa testimonianza dei vari stadi della storia dell’umanità: dalle barbarie alla società industriale.
Un primo cambiamento nell’approccio all’arte etnica si manifesta a partire dagli anni ’30 del XX secolo. L’“arte primitiva” viene riscoperta, apprezzata e catalogata in base al suo valore estetico e non più come simbolo del ritardo evolutivo, anche se l’idea di “bello” rimane un metro di giudizio puramente occidentale e incapace di restituire il vero significato all’oggetto. Soltanto in seguito prende piede l’idea secondo cui la produzione etnica, per essere compresa, debba essere considerata come parte integrante del suo contesto culturale originario. Tale approccio raggiunge piena maturità negli anni ’80, quando l’antropologia dell’arte viene riconosciuta come disciplina vera e propria. Il principio che vi sta alle spalle è quello per cui l’arte non è soltanto una questione di stile, tecnica e genio, ma è prima di tutto un atto che vuole creare significato. Per questa ragione, si cerca di restituire la parola all’oggetto e, così facendo, alla cultura che l’ha fabbricato. Non esiste, in altre parole, l’oggetto in quanto tale: esiste l’oggetto inserito nell’evento sociale, culturale o religioso da cui trae origine e ragion d’essere.
Il souvenir è un insieme di stereotipi che condensa un certo tipo di confronto con l’Alterità; ve ne è un altro, più consapevole e approfondito, che non si limita a soddisfare i gusti di chi osserva ma che si vuole strumento di apertura e conoscenza reciproca. L’arte etnica, se considerata ed esposta con rispetto, diventa un preziosissimo utensile nell’edificazione del vivere insieme.
Le culture e i musei
Il museo è il luogo quasi incantato in cui l’uomo poggia oggetti, immagini e fotografie e così facendo disegna il mondo. Salvo che gli oggetti, le immagini e le fotografie non sono reali, bensì una rappresentazione soggettiva della realtà, un modo di darle un senso. Sono corpi nudi, svuotati e sradicati dallo spazio e posti lì accanto ad altri, ad assecondare vecchi o nuovi principi estetici.
Tutto ciò assume maggior rilievo se gli oggetti in questione sono parte di una cultura, legati a riti o cerimonie, sacri in terra propria e invece esposti al grande pubblico nei musei di etnografia. La domanda sorge spontanea: com’è possibile, fra le quattro mura di un museo, restituire all’arte etnica il suo significato culturale originario? Buona parte della risposta è senz’altro contenuta nel tipo di approccio che si riserva all’oggetto. Posto che il giudizio etnocentrico è il primo ostacolo da superare e che è in ogni caso impossibile ricreare fedelmente il contesto primo, l’arte etnica va raccolta sulla base di una conoscenza dello stile e della tecnica insieme alla comprensione delle categorie mentali che le appartengono. Si tratta dunque di distinguere gli elementi che compongono l’opera plastica e la sua costruzione nello spazio, al fine di identificarne i criteri di forma, di compararla e classificarla. A questa osservazione tecnica va affiancato un riscontro di tipo storico-etnografico: ogni stile rinvia a una comunità, un luogo, un’epoca o un rito; a un significato, per farla breve, che è a sua volta parte di un immaginario condiviso. Soltanto con il lavoro sul terreno, partecipando cioè alla vita culturale di una data popolazione per un certo periodo, è possibile comprendere il valore che l’oggetto assume agli occhi dell’indigeno.
L’esibizione di una collezione di oggetti nell’ambito di un museo etnografico, altro non è che la fase finale di un lungo processo indispensabile per il mantenimento del significato primo. L’oggetto stesso è riproduzione di tutto un mondo e dei suoi colori, espressione artistica di una società da cui non può prescindere.