“Pero’ se proprio volete un’idea su quello che e’ successo nell’episodio di Carlo Giuliani, vi diro’ la mia. Perche’ probabilmente Carlo Giuliani e’ morto perche’ ha cominciato a sporgersi un po’ troppo dal finestrino del defender e… ed e’ sciovalto giu’, si’. Come nel ’69 successe a quell’anarchico di Pinelli nella questura di Milano. Oppure perche’ voleva pagare un giovane per ottenere una prestazione sessuale, come Pasolini. Oppure per un cedimento strutturale, come nell’ ’80 ci disse Cossiga che successe dell’areo di Ustica. Oppure per lo scoppio di una caldaia, come a Bologna nel ’69. O di morte naturale, come Papa Luciani, o per un raffreddore. Oppure e’ morto perche’ l’hanno impiccato sotto un ponte a Londra, come Calvi. O forse e’ morto perche’ si e’ suicidato, si’, come Peppino Impastato. Oppure sara’ morto perche’ probabilmente, il colpo del nostro Inchiapplanica ha cominciato a colpire prima l’estintore poi e’ rimbalzato sopra il cuffione di un altro pericoloso anarchico-comunista che stava li’ di fianco, poi dev’essere rimbalzato sul bordo del marciapiede, deve aver preso la gomma del defender, poi la scarpa del nostro Carlo Giuliani, poi gli e’ rimbalzato sul cappello, cappello scarpa cappello scarpa palo goal. Piu’ o meno come la commissione Warren decise che fece il proiettile che uccise Kennedy. Oppure e’ morto in un incidente aereo, come e’ successo a Mattei, l’ex dirigente dell’Eni.
Ma non e’ importante, e non bisogna prendersela troppo. Perche’ come diceva Bertoldo, il mondo e’ fatto a scarpette: pero, c’e’ chi le cava, e c’e’ chi le mette. Questa qua voi della digos non mettetela a verbale, tanto non la capireste”.
E’ il 14 marzo 2013 e sono le 18h30. Una macchina sfreccia sulla Road 5, nella regione di Salfit, nord-ovest della Palestina occupata. E’ una donna al volante, e dietro ci sono le sue tre figlie. Sta tornando a casa, non vede l’ora di arrivare, accelera piu’ del normale. Forse sta parlando al telefono, forse e’ immersa nei suoi pensieri, di fatto non vede che davanti a lei un autocarro e’ fermo, solo di poco accostato a destra. Non lo vede, non fa in tempo a frenare: lo scontro e’ violento, le ferite gravi. Soprattutto quelle di una delle tre bambine: nessuno sa se sopravvivera’. Poi tutto accade molto in fretta: l’ambulanza porta via la donna e le fanciulle, la polizia interroga il camionista; vuole sapere perche’ si e’ fermato in mezzo alla strada, vuole conoscere la ragione. L’autista dice la verita’: la gomma era scoppiata, non poteva proseguire; ci sono le prove, ma nessuno ha visto nulla, nessun testimone.
Sembra un incidente come altri, quello sulla Road 5, eppure non lo e’; anche se la bambina ora e’ fuori pericolo, anche se e’ certo che soppravvivera’. La notizia rimbalza allegra nei regimi d’Occidente, e qualche giornale di democrazia riesce addirittura a infilarla fra una colonna e l’altra prima della tiratura. “Attacco terroristico palestinese ai danni di una famiglia israeliana, l’ennesimo”: i titoli sono sempre uguali.
E’ il 14 marzo 2013 e sulla Road 5 un’auto si e’ schiantata. Ma non e’ un incidente come un altro, non e’ la stessa cosa: la donna al volante si chiama Adva ed e’ una colona israeliana residente nell’insediamento illegale di Yakir. Anche le sue tre figlie sono israeliane. Ancora sotto shock, la donna descrive l’urto e i frammenti di paura che lo precedono: le urla dei freni e delle bambine, il volante impazzito e i metri di asfalto compressi in verticale. E poi il dolore, suo e di tutta una famiglia, forse per sempre.
All’ospedale, Adva si riprende e torna lucida, presto realizza di essere stata fortunata. E aggiunge un dettaglio, ai suoi ricordi, come a volersi scrollare di dosso una responsabilita’ che la sta soffocando. Anche se sua figlia e’ fuori pericolo e sopravvivera’. A colloquio con le autorita’, Adva ammette che e’ stato un incidente, si’, ma che la colpa non e’ sua: dice che c’era un autocarro, la’, in mezzo alla strada, e che non l’ha visto; ma non era disattenta, non stava parlando al telefono: dice che l’autocarro non l’ha visto perche’ dal cielo piovevano pietre, dice che lassu’ nel cielo ha visto dei giovani, probabilmente fra i nove e i diciott’anni; lanciavano pietre. Anche il camionista, israeliano, ora cambia idea, anche lui offre piu’ dettagli. L’autocarro era fermo, si’, e una gomma era a terra. Ma quel che importa ora e’ il dettaglio: la Road 5 era cosparsa di pietre piovute dal cielo. Le ha viste tutte, lui, quelle pietre, e le ricorda bene.
Accanto alla Road 5 nel distretto di Salfit, nord-ovest della Palestina occupata, c’e’ un villaggio chiamato Hares. E’ il 15 marzo 2013 e fa ancora buio, probabilmente non sono ancora le sei di mattina. Piu’ di cinquanta soldati israeliani, incappuciati e armati fino al collo, fanno irruzione in tutte le case del villaggio. Hanno cani feroci al giunzaglio, cercano qualcosa. Urlano e frantumano quel che trovano, dicono che vogliono vedere tutti i figli maschi di tutti i padri del villaggio, tutti quelli in eta’ fra i nove e i diciott’anni, tutti i terroristi di domani. Ne trovano dieci, di ragazzi: li bendano e li legano, poi li portano via. Nessuno sa dove, nemmeno le famiglie vengono informate.
E’ domenica 17 marzo, e sono le tre del mattino: Hares sta dormendo. I soldati, accompagnati dai Shabak (servizi segreti israeliani), irrompono in tre case del paesino accanto alla Road 5, sfondano le porte. Sono cattivi, sembrano sadici: mostrano un pezzo di carta bianco con scritte nere in ebraico, si agitano e sbraitano forte. Un pezzo di carta e tre scritte in ebraico: tre nomi, tre ragazzi, arabi e adolescenti: uno per casa, uno per famiglia. Il piu’ giovane ha sedici anni, il piu’ adulto diciassette. Bendati e incappucciati, strappati ai genitori, sono portati via. A uno di loro, con ghigno beffardo e voce soffusa di brutalita’, un soldato bisbiglia: “Abbraccia tua madre, dalle anche un bacio: puo’ darsi che non la rivedrai piu’.”
E’ di nuovo domenica, ad Hares, una settimana dopo. Pomeriggio, a scuola le lezioni sono appena terminate, i ragazzi tornano a casa per i compiti. Nuove jeep israeliane si presentano nel nucleo, e ancora dicono che cercano qualcuno. I ragazzi fra i nove e i diciott’anni vengono messi in fila, in piedi uno accanto all’altro. Ma questa volta c’e’ qualcosa di diverso, questa volta fra loro c’e’ qualcuno di diverso: un bambino, sei anni, terrorista in potenza. Un adulto interviene, e’ suo zio. Implora i soldati affinche’ non lo portino via. Dice che e’ giovane, troppo giovane; dice che e’ un bambino. Un soldato afferra l’adulto, estrae la pistola, la carica e gliela punta in fronte, mentre il nipote e i ragazzi allineati guardano atterriti. Non succede niente, i soldati non vogliono che succeda niente. Guardano i giovani, uno a uno, e sanno di essere forti: basta un respiro fuori posto o un lamento mal trattenuto per firmare una sentenza, per estrarre un altro anello dalla catena umana palestinese e serrarlo su se stesso. Minuti che sembrano ore, poi la pistola si abbassa e una spallata allontana l’adulto. Fra la fila di ragazzi, all’appello dei soldati tre compiono un passo avanti. Tre a caso, o forse scritti in nero sul foglio bianco: bendati e legati, sono portati via. Nessuno sa dove.
Il 14 marzo 2013 un’auto si e’ schiantata, ma non e’ stato un incidente qualunque. Adva e le sue tre bambine hanno subito ferite gravi ma sono ancora vive, per fortuna. Si sono salvate, anche se qualcuno voleva che morissero.
Dicannove ragazzi del villaggio di Hares sono stati arrestati: qualcuno di loro ha sentito parlare di un incidente ma nessuno conosce davvero la ragione; nessuno ha precedenti penali o ha mai lanciato una pietra. Dopo giorni di interrogatori e punizioni, molti vengono rilasciati; ma non tutti: alcuni di loro rimangono in custodia e sono trasportati nella prigione israeliana di Megiddo. Un carcere per adulti e non per minorenni. La voce si diffonde, le famiglie chiedono aiuto: i ragazzi, quelli che rimarrano in carcere, vengono presto conosciuti come “i cinque di Hares”. Cinque vite spezzate che vanno ad aggiungersi a quelle degli altri 6500 prigionieri politici palestinesi, a quelle degli altri 182 minorenni nelle gabbie israeliane. Uno di loro, rilasciato nei mesi successivi, racconta le prime due settimane passate in cella di isolamento: “un buco senza finestre, largo un metro e lungo due. Non c’era nessun materasso ne’ coperta per dormire; la latrina era sudicia. Le sei lampade della cella rimanevano accese 24 ore su 24, persi presto la concezione del tempo. Non sapevo se era giorno oppure notte, non potevo dormire. Il cibo era andato a male, mi ammalai”. Riconosciuto non colpevole anche dopo gli ultimi tre giorni di interrogatori, il ragazzo viene liberato. Ma i cinque rimangono dentro, anzi addirittura confessano crimine e intenzioni: quel pomeriggio, quel giovedi’ 14 marzo, lanciarono pietre, tante, fino a colpire un’auto. La stessa che urto’ un camion accostato di poco sulla destra, una gomma a terra e nessun testimone. Cinque ragazzi confessano di essere colpevoli: convinti dalla cattiva coscienza oppure dalla cella di isolamento. O quasi sicuramente dalle innumerevoli torture subite, che ancora non hanno potuto descrivere e che forse non si sapranno mai. Anche se molti – piu’ del venti percento della popolazione palestinese – sanno di cosa si tratta, ne hanno fatto esperienza in carcere: insulti infiniti, umiliazioni alla dignita’, botte fino a spezzare le ossa, elettroshock ripetuti quando si tratta di cavare un’ammissione di colpa oppure qualche informazione.
Trovati i colpevoli, tutto va da se’. Benyamin Natanyahu, primo ministro del terrore israeliano, si presenta allegro alle telecamere di Stato: “Li abbiamo presi, giustizia e’ fatta”, dice solenne con voce pulita e doppiopetto stirato. Al resto provvedono la corte, i giornali e chi volta la schiena: sessantun testimoni si fanno avanti, giurano il falso, han visto le pietre. Sono israeliani, tutti, coloni i piu’, gli altri poliziotti oppure Shabak. L’accusa parla chiaro, “volevano uccidere”. Ergastolo, anzi no: venti anni per sasso, venti anni a persona male che vada: se i cinque di Hares sopravviveranno all’ergastolo e alle torture, saranno ancora in prigione.
E’ lunedi’, 26 gennaio 2015. Due anni dopo. Alla corte militare di Salem, nord di Jenin, Palestina occupata, e’ in programma la sentenza in via definitiva per i “cinque di Hares”. E’ in programma per la nona volta: le otto precedenti i genitori e gli amici degli accusati hanno fatto chilometri e aspettato ore, hanno intravisto i figli e gli amici ammanettati, ma poi non e’ successo nulla, la sentenza e’ stata rimandata al mese successivo e nessuno ha saputo niente. Otto rimandi in dodici mesi. Ma questa volta e’ diverso, questa volta e’ probabile che la corte emetta la sentenza. Ecco perche’ i genitori e gli amici hanno fatto girare la voce, ecco perche’ hanno chiesto agli internazionali di presenziare a processo: non cambiera’ molto, lo sanno, ma forse il giudice si degnera’ almeno di prestare un briciolo di attenzione agli incarti prima di firmare svogliato il decreto d’accusa. Prima di chiudere le sbarre in via definitiva. Non cambiera’ molto, lo sanno, forse anche stavolta il giudice non leggera’ quelle carte; ma almeno, quando emettera’ la sua sentenza, vedra’ che sono in molti, li’, a guardarlo negli occhi.
La corte militare di Salem, a nord di Jenin, e’ un rettangolo di qualche centinaia di metri quadrati strappati al suolo palestinese e trasformati in non-luogo di cemento armato. E’ una struttura possente, un’artiglieria pesante che si impone fra la terra e il cielo e sancisce tutto il suo potere. Quello del grigio metallo e del filo spinato, quello dell’ordine e della disciplina. Per trovare qualcosa di vivo e di umano, bisogna fermarsi a una decina di metri dall’entrata, dove dietro un banco un vecchio palestinese vende sigarette e caffe’ insieme a un bambino, forse suo nipote. E’ mattina presto, ma piu’ di trenta persone sono gia’ in attesa. Davanti al primo cancello, aspettano che il soldato israeliano lo apra e pronunci il loro nome. Uno per volta, uno ogni dieci minuti se il giorno e’ fortunato. Dentro, poi, non si scherza piu’. Fra le ramine si apre un corridoio lungo e sinuoso che porta al primo check-point, dove si ammassano i famigliari entrati prima. Attesa, minuti che passano: la precedenza e’ per le donne, le madri. Una macchina controlla le persone, suona se qualcosa non va. Basta una chiave o un oggetto sospetto e dalla cabina uscira’ un soldato arrabbiato a bloccare il passaggio. Chi passa va avanti, ora all’interno del prefabbricato militarizzato. Una decina di metri e di nuovo un cancello. Vi si accede uno dopo l’altro a intervalli ritardati. Nella fessura angusta di un doppio vetro protetto va inserita una carta o un documento di identita’: gli internazionali passano, i palestinesi pure a meno che non scoprano di essere stati aggiunti alla lista nera. Quella delle persone non in regola, quella che sul computer lampeggia in rosso e vieta l’accesso al territorio israeliano. O alle corti militari. Poi c’e’ una stanza, alta piu’ che larga. Si entra da soli con un soldato, faccia al muro e braccia alzate: la perquisizione e’ curata nel minimo dettaglio. Ancora dieci metri su una griglia sollevata e poi parenti, amici e internazionali si ritrovano in una corte davanti a un cancello, alto e spinato, protetto da tre piantoni immobili. C’e’ anche una tettoia, una latrina e un lavandino: chi conosce la procedura, chi ci e’ gia’ stato, sa che potranno passare delle ore prima di entrare in sala, e allora si organizza con le bottiglie per l’acqua e il tabacco per le sigarette.
Alla corte militare di Salem, quando in programma ci sono le sentenze, si concentrano diversi casi: per risparmiare tempo, per sbrigare la faccenda prima che diventi un peso oltre che un costo. Il tempo non lo risparmiano i genitori e i famigliari degli accusati, che in silenzio, ognuno per conto proprio, siedono per ore davanti al cancello in attesa che un soldato lo apra e pronunci il nome del condannato. Qualcuno entra, gli altri si ammassano per gettare un’occhiata oltre le sbarre e i secondini, perche’ lontano venti metri, se va bene, si intravede il prigioniero: di spalle, con le catene ai piedi e le mani legate, stretto fra due militari. Le madri si alzano in punta di piedi, i padri tirano il collo, provano a rubare qualche centimetro alla statura del cancello, provano a strappare i figli alla morsa dell’attesa.
Attende piu’ di tutti il prigioniero, fatto svegliare che e’ buio poco dopo mezzanotte e portato a processo con un blindato. Attende piu’ di tutti il prigioniero, specie se e’ bambino o adolescente, di vedere sua mamma e suo papa’, di nutrirsi di un po’ del loro affetto, della complicita’ del loro sguardo.
“Altif”, tuona la voce di una donna soldato, capelli biondi e volto imbronciato. I parenti si ammassano, il soldato si altera, comincia ad urlare. Grida in ebraico, dice che e’ stufa e sveglia da poco, minaccia attenzione, se si arrabbia son guai. Dice gridando che se di nuovo un amico, un parente o un bambino, avvicina il cancello, fa sgombrare la sala, fa finire la festa. I parenti e gli amici allora indietreggiano, mantengono la distanza imposta dall’alto. Fanno spazio a chi accede, con poca speranza e per pochi minuti. Non si sa cosa accada la’ dentro, in bocca al potere; chi cammina all’indietro il cancello del pianto non parla, aspetta di uscire, tornare a casa. Un uomo, probabilmente padre, lasciata la corte siede un istante coprendosi il volto. Qualcuno lo vede piangere, qualcuno scommette che una sentenza e’ stata siglata.
“Kamal”, rimbomba la voce. E’ uno dei cinque. La sala si agita, un neonato strilla. Venti persone scattano in piedi, vicino al cancello poi tornano indietro, sbirciano guardano ma si trattengono, parlano urlano si mordon la lingua: tacciono. Due giovani, un fratello e un amico, con passo di corsa si affrettano a entrare. L’amico o il fratello getta una cicca non del tutto fumata fra le mille giu’ in terra, un soldato lo vede e severo lo blocca, il ragazzo si volta raccoglie e si scusa.
Passa un minuto dopo le ore di prima, un uomo si alza ha visto qualcosa, la’ in fondo, oltre il cancello, catene alle mani e piedi legati. Anche una donna intravede qualcuno, risoluta ora avanza cammina e poi corre, nessuno la ferma, impugna con forza il cancello di ferro, grida parole fra i soldati e le sbarre. E’ suo figlio la’ in fondo, di spalle ma ascolta, anche il padre ora urla, di amore e passione, rosso nel collo manda messaggi e calore. Piu’ possenti dei soldati incazzati, piu’ alti del panno e delle voci cattive che tentano invano di ostruire la vista e impedire il contatto, il bene. Si muovono i soldati, furiosi, si muove la corte, cinica: rimanda il giudizio ed espelle i parenti. Anche il fratello torna indietro, e l’amico: in mano il mozzicone, la rabbia nel cuore. Nessun processo, nessuna sentenza, il prossimo appello e’ fra quindici giorni. Ma nessuno sa niente.
Torna indietro il prigioniero, passi lenti e mani strette. Torna in cella fra i soldati, al buio, dietro al muro che divide; sotto al panno grigio scuro e al cancello del pianto.
Torna a casa il prigioniero, inghiottito fanciullo nella bocca del potere. Ucciso per anni nella gabbia stretta di sicurezza armata, confinato innocente in una sterile galera; la stessa da cui Susanna Ronconi, ribelle, da Voghera, dal carcere speciale, nel 1983 scrive: “Le divise informi, di stoffa ruvida, con stampigliato sulla schiena ‘Trani – 1944’ (ma eravamo belle lo stesso bastardi, Dio se eravamo belle). E quando mettevano brutta musica a tutto volume, sparata dagli altoparlanti in tutti i corridoi per impedirci di comunicare tra noi, noi cantavamo piu’ forte, fino a gonfiare le vene del collo. E quando al momento dell’arrivo ci mettevano nude in fila e ci facevano fare sei flessioni, e poi ci cacciavano a forza sotto le docce calde, per vedere se la vagina, rilassata dal calore, lasciava cadere esplosivi, messaggi cifrati, documenti politici, lettere d’amore clandestine, cacciavamo le lacrime in gola e cercavamo i nostri sguardi piu’ sprezzanti, e perfino qualche scintillio di ironia; e quando, rivestite delle divise naziste e calze color militare che scendevano al polpaccio a ogni passo, e scarpe di cartone, incalzate dal fiato sul collo dello sbirro che dava il ritmo dell’apertura dell’infinita teoria dei cancelli blindati ripetendo ‘muoviti puttana’, si’ anche allora eravamo belle bastardi, Dio se eravamo belle.”
https://www.youtube.com/watch?v=NfmFrT9brYw
NB: Le testimonianze sono state raccolte a colloquio con i famigliari degli accusati. I nomi di questi ultimi sono interamente inventati. Le informazioni sono state fornite dal gruppo legale di supporto ai prigionieri politici palestinesi ADDAMEER (http://www.addameer.org/).
NB: Le parole di Susanna Ronconi sono contenute in “Diario minimo da un altro tempo”. Un forte grazie a un compagno in Svizzera, per averle scoperte e perche’ quando le canta lui fa venire i brividi.
NB: Il testo in appendice e’ tratto dallo spettacolo teatrale di Giulio Cavalli, “(Re) Carlo (non) torna dalla battaglia di Poitiers” (https://www.youtube.com/watch?v=3jvFBNCMLws).