TRIBÙ DELLE MONTAGNE

QUEL FIORE

Quel fiore –

gli hanno strappato i petali, ma è vivo

quel cuore –

nella sventura, è rimasto saldo

quella stella –

è caduta, con una scia di luce nella foresta

come chi sa morire con un sorriso

quando spalanca le ali

il vento dell’altopiano.

Li porto con me,

sono l’immagine

del non arrendersi.

(Hejar)

Non è mai bello parlare di leader politici o capi di partito, ne va della credibilità degli stessi e subito la mente tende a produrre immagini poco felici di personaggi ambigui. Non è mai facile presentare un singolo volto quando si vuole parlare di un popolo intero, ma forse lo diventa se questo volto è naturalmente legato all’immagine di un eroe. Abdullah Ocalan vive dal 1999 confinato nell’isola turca di Imrali, un pezzo di terra nel Sud del Mar di Marmara adibito a carcere di massima sicurezza. Egli sconta la sua pena nel più assoluto isolamento, essendo l’unico prigioniero dell’intera isola; la sua colpa è quella di non aver accettato l’assimilazione del suo popolo di fronte al feroce nazionalismo turco e alle mire espansioniste degli altri Stati del Medio Oriente. Il potere, quando non riesce ad assoggettare le differenze e a eliminare le sue stesse contraddizioni, le combatte con la violenza e le isola dal loro contesto originario.

Questa è la storia del Kurdistan, una terra il cui nome risale alla combinazione della parola sumerica “Kur” – “Montagna” – con il suffisso “ti”: “Kurti” significa così “Tribù delle montagne” e ben rappresenta la particolarità geologica di questa zona fertile e ricca di risorse, che da sempre ha ospitato la più antica popolazione autoctona – quella dei curdi – e che dal 1923 è stata smembrata in quattro parti e occupata da Turchia, Iran, Siria e Iraq. In reatà, i curdi sono da sempre stati in balia di colonizzazioni e incursioni da parte di potenze straniere: dalle conquiste arabe a quelle di Alessandro Magno, dall’invasione dei mongoli nel XIII e XIV secolo all’annessione all’Impero Ottomano in epoca più recente.

Non è mai scontato parlare di un popolo e dei suoi eroi, tanto più se l’area in questione è quella del Medio Oriente e se ogni aspetto richiederebbe un’analisi che sappia tener conto del fattore culturale e religioso come di quello economico e poilitico, e così di molti altri ancora. Più immediato risulta allora cedere la parola a chi ha vissuto la storia di un intero popolo e questa storia la sente ancora bruciare sulla propria pelle, e la racconta con gli occhi che brillano e si accendono come lumi di speranza mista a rabbia.

Incontro Rêzan in un risorante anonimo, ci sediamo uno di fronte all’altro a un tavolo un poco discosto, lontano dalla luce accecante dei lampadari. Mi presento e subito chiedo di raccontarmi di lui, del perché da circa venti anni vive in Svizzera da rifugiato politico. La sua storia inizia con un aneddoto: è il ricordo di quando era solo un ragazzino e viveva nel suo villaggio situato nel cuore del Kurdistan, territorio occupato dallo Stato turco. Allora, avere accesso a qualsiasi tipo di prodotto culturale o letterario curdo, come pure rivendicare la propria origine etnica, era considerato un crimine, un motivo valido per essere arrestati. Rêzan ricorda in particolare che insieme ad alcuni amici, ci si ritrovava in un locale per ascoltare la radio, un’emissione clandestina dove era possibile trovare della musica curda: per farlo, però, bisognava organizzarsi e tendere bene le orecchie, pianificare dei turni di guardia e assicurarsi di aver chiuso bene il cancello, così che al minimo rumore rimaneva il tempo per spegnere quella voce illegale e sbarazzarsi di tutto prima che fosse troppo tardi.

Probabilmente quella voce la sente ancora, perché la questione della lingua è forse il nodo centrale della repressione del popolo curdo. Tutti i bambini, indipendentemente dalla loro origine etnica, erano obbligati a frequentare la scuola pubblica, che come tutte le altre istituzioni nelle zone curde della Turchia veniva gestita da funzionari e militari turchi. È proprio nella scuola primaria che veniva insegnato il nazionalismo razzista turco, lo stesso che non riconosceva nessun altro gruppo etnico, lo stesso che nei primi anni del secolo aveva concretizzato il genocidio della popolazione armena.

Nella prospettiva del regime, “curdo” era una non- parola: i curdi stessi non esistevano, tanto meno la loro lingua. Chi osava affermare il contrario poteva pagare con la vita, e lo sapeva bene chi vedeva ogni mese scomparire dei compagni sequestrati e poi uccisi dalle forze armate. L’educazione, si diceva: Rêzan ricorda le violente punizioni che subiva ogni volta che veniva sopreso a parlare curdo con i suoi compagni, come pure ricorda il rituale momento della recitazione dell’inno turco e la ripetizione a voce alta della celebre frase “Ne mutlu Türküm diyene” (“sia fiero colui che si dice turco”), alla quale sistematicamente, lui come molti altri, sostituiva “turco” con “curdo”: un’offesa per le autorità, punita con botte e discriminazioni.

Continuo a fissare i suoi occhi e penso che quando un bambino sviluppa e pratica quotidianamente tali forme di resistenza, significa che la questione è profonda e si tramanda di generazione in generazione. Chi ho di fronte non è più un bambino, il volto severo e vivace è segnato dagli anni e ne dimostra forse più di quelli scritti all’anagrafe: forse alcuni anni sono andati perduti in quei trentadue giorni di tortura fisica e psicologica che Rêzan ha trascorso in un posto di polizia quando aveva diciassette anni e venne arrestato per la prima volta, nell’attesa di essere destinato al carcere di Elazig: il più restrittivo e disumano della Turchia, riservato ai soli prigionieri politici quasi esclusivamente curdi. Forse alcuni anni sono andati perduti nei successivi sei mesi di prigione, oppure nelle innumerevoli altre volte in cui Rêzan è stato arrestato per la sua attività politica di informazione e appoggio della causa curda mentre frequentava l’università di Diyarbakir, la città che viene considerata la capitale del Kurdistan turco. Sicuramente, qualche anno Rêzan l’ha perduto quando ha saputo di essere stato condannato a 3 anni e 9 mesi di prigione, ha sentito che la sua vita era concretamente in pericolo e ha deciso di nascondersi, comprare un passaporto falso e fuggire in Svizzera, dove subito, all’età di appena ventun anni, ha ottenuto lo status di rifugiato politico.

La storia del Kurdistan e dei curdi è una storia di resistenza millenaria di fronte al susseguirsi delle oppressioni e ai tentativi di cancellare la propria cultura attraverso la migrazione forzata, la negazione di qualsiasi tipo di diritto e l’impossibilità di accedere alle ricche risorse naturali. Ma la resistenza del Kurdistan è anche una storia di guerriglia, favorita sicuramente da quella ancestrale risorsa geografica offerta dalla terra curda: le montagne. L’antropologo Fridrick Barth ha dimostrato che le frontiere identitarie dei gruppi etnici sono estremamente fluttuanti e variano a seconda del contatto con gli altri gruppi circostanti: tendono a rafforzarsi in una situazione di prossimità, specie se questa è di tipo conflittuale. Quel che è certo, poi, è che la pratica della guerriglia, prima ancora di costituire una strategia, rappresenta per un popolo oppresso una grande ricchezza in quanto a produzione di senso, identità e unità di gruppo.

Abdullah Ocalan ha saputo leggere la realtà che gli si presentava di fronte agli occhi e dare avvio a un processo di unificazione della popolazione curda che oltrepassasse le barriere poste dall’eterogeneità dei venticinque millioni di abitanti, dalle differenze territoriali, religiose e di ordine sociale oltre che politico. Il 27 novembre 1978 venne fondato in un piccolo villaggio vicino a Diyarbakir il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, di ispirazione marxista-maoista: attorno al neaonato PKK, che presto si organizzò anche militarmente, si sviluppò la già diffusa idea di autodeterminazione e il sogno della creazione del Grande Kurdistan Libero, uno Stato-Nazione indipendente e che inglobasse tutte le regioni del Kurdistan sparpagliate negli Stati occupanti. Dopo il Colpo si Stato del 12 settembre 1980, con il quale i militari turchi si impossessarono del potere, il PKK si costituì in quanto movimento di liberazione nazionale e diede avvio a una vigorosa guerriglia nascosta fra i monti, che mirava a colpire sistematicamente tutte le istituzioni che simboleggiavano il potere dello Stato turco in Kurdistan; ben presto, poi, seppe organizzarsi come forza armata in tutte le altre zone, sebbene l’attenzione e la conflittualità rimanesse concentrata prioritariamente nel Kurdistan Occidentale. La situazione degenerò presto in una guerra spietata e infinita, che vedeva protrarsi il costante compimento di atrocità per opera di entrambe le parti. Più volte, dal PKK, fu tentata una soluzione diplomatica e un cessate il fuoco, che si rivelò però sempre unilaterale, mai rispettato dallo Stato turco che intendeva risolvere la questione curda in modo militare e che accentuava sempre più la repressione sulla popolazione civile, come testimoniano i numeri delle persone scomparse, fatte prigioniere o costrette all’esilio.

Nel 1998, in violazione del diritto internazionale, Ocalan veniva rapito in Kenya e imprigionato nell’isola di Imrali: lo Stato turco sosteneva così che di là a poco la questione curda si sarebbe risolta, nella certezza che presto l’unità del PKK si sarebbe dissolta e ogni tipo di rivendicazione andata spenta. Effettivamente, il sequestro di Ocalan ebbe delle ripercussioni importanti sul Partito dei Lavoratori del Kurdistan, anche se le profonde mutazioni che ne seguirono non andarono nella direzione auspicata dallo Stato turco ma contribuirono anzi a rafforzare e dar maggior longevità al progetto di questa ampia fetta del popolo curdo. Soprattutto, poi, tale frattura all’interno del PKK era già stata da tempo prevista e ben accolta dallo stesso Ocalan, che ne aveva in parte già teorizzato il cambiamento.

Nel suo saggio Guerra e Pace in Kurdistan, il leader curdo analizza razionalmente i limiti del suo partito a livello ideologico, storico e strategico, e li riassume in alcune contraddizioni che appaiono più che mai fondamentali per qualsiasi tipo di movimento di liberazione. Innanzitutto, i principi di democrazia, uguaglianza e libertà auspicati dal PKK, erano in netta contraddizione con l’organizzazione dello stesso, di tipo gerarchico e statale. In secondo luogo, la volontà di dare avvio a una democratizzazione della società cozzava con la ricerca del potere istituzionale: è questa una problematica cruciale e che avrebbe contribuito a rimodellare la rivendicazione di autonomia del Kurdistan, gettando le basi per un sistema di autogoverno in cui fosse il potere a modellarsi sulle pressioni della società e non il contrario. Lo stesso Ocalan è chiaro su questo concetto: «Un partito veramente socialista non si ispira a una struttura gerarchia di tipo statale, né aspira al potere politico istituzionale, alla cui base troviamo la protezione degli interessi e del potere con il ricorso alla guerra»(1). La stessa questione della guerra costituisce un’importante incoerenza: come poteva la guerra essere considerata una continuazione della politica per un movimento di liberazione in cui la forza armata doveva limitarsi ad assicurare un’auto-difesa? Era certo che il PKK era chiamato a elaborare nuove linee politiche e nuove strategie. Si arrivò così ben presto all’idea che meglio si sposa con la dimensione collettiva, territoriale e identitaria del concetto di autodeterminazione: quella della creazione di un sistema federale nel quale le diverse popolazioni e minoranze potessero vivere insieme e in pace, nel rispetto e nella valorizzazione delle diverse culture e nella costruzione di un socialismo democratico, fondato sul principio della libertà e quindi – diversamente dal socialismo reale – effettivamente in grado di superare il capitalismo. Abbandonata quindi l’idea dispotica della creazione di uno Stato-Nazione, poco incline per sua natura a rispettare le differenze culturali, religiose, politiche e individuali al suo interno, il PKK e più in generale il popolo curdo lotta da più di un decennio per la creazione di un confederalismo democratico in cui i il Kurdistan possa auto-organizzarsi in forme di autogoverno basate su consigli aperti, consigli comunali, parlamenti locali e congressi allargati, dove il popolo curdo – e non le autorità statali -, nella collaborazione reciproca con gli altri gruppi etnici presenti sul territorio, siano gli attori principali. In tale contesto, alla forza armata deve restare garantita l’esclusiva funzione di auto-difesa di fronte all’ipotetico non-rispetto dell’autonomia da parte di potenze straniere. L’edificazione teorica e pratica di un tale progetto presenta uno scambio continuo fra l’aspetto ideologico e quello pragmatico, fra il piano micro e macro territoriale, fra la condizione individuale e quella collettiva: perché questo disegno politico possa realizzarsi, è necessario che si avvii un processo di emancipazione che sappia promuovere la partecipazione alla vita pubblica dei singoli e delle categorie prima escluse – in primis quella importantissima delle donne – e al tempo stesso è necessario che alle singole persone siano garantite le libertà individuali e di espressione; la diffusione di questo tipo di socialismo libertario è un passo essenziale poiché permette l’abolizione dello Stato tramite la partecipazione della società alla diffusione della cultura e alla distribuzione delle risorse; infine, per assicurare la libertà di espressione dei popoli, la valorizzazione delle etnie, delle lingue e delle culture degli stessi, è imperativa una democratizzazione dello Stato turco e di tutti gli Stati del Medio Oriente.

La lotta per l’autodeterminazione del popolo curdo ha dimostrato di saper assumere diverse sembianze ed essere in grado di adattarsi alle necessità collettive; ha saputo combinare l’aspetto militare con quello politico, riuscendo a coltivare e dar continuità al sogno dell’autonomia e ricordando a se stesso e a chiunque che la libertà può essere raggiunta soltanto per mezzo della libertà.

Non è mai facile prendere posizione di fronte a conflitti armati che sovrappongono ragioni e interessi di diversa natura, appoggi politici e intenzioni nascoste dal sapore autoritario oppure imperialista. Più facile e giusto è sicuramente appoggiare quei popoli che lottano contro i regimi e il potere, nella ricerca della conquista di una libertà da sempre sognata e sistematicamente negata con la forza dell’oppressione militare e culturale.

La guerra è un orrore disumano ma senz’altro crea un movimento non indifferente: sposta gli equilibri, smuove la storia. Il conflitto siriano è un caso esemplare di come per il popolo curdo il contesto bellico sia interpretato come una chiave per la creazione di un’autonomia propria e per la diffusione del proprio modello di autogoverno. Come nelle altre regioni del Kurdistan, anche i curdi del territorio occupato dalla Siria sono da sempre stati confrontati con un’oppressione culturale che mirava ad eliminare la loro identità e ad arabizzarli: la situazione peggiorò ulteriormente nel 1963 con la presa del potere da parte del partito Baas. Ma anche grazie al fatto che Ocalan visse per più di venti anni in Siria e che il PKK ebbe modo di affondarvi le proprie radici, la resistenza del popolo curdo alle volontà assimilatrici del regime siriano ha origine ben precedente al 2011. È però a partire da questo anno che tanto il regime quanto l’esercito siriano libero hanno tentato di assicurarsi l’appoggio della popolazione curda e delle sue forze armate, a colpi di fievoli promesse in un primo momento e di accuse di tradimento e attacchi militari in seguito. All’interno di questo conflitto spesso confuso e indefinibile, i curdi hanno sviluppato una forma di resistenza indipendente, un terzo fronte, che ha loro permesso di approfittare degli interessi in gioco per (ri)appropriarsi militarmente e politicamente delle aree del Kurdistan occidentale (nord della Siria), creando zone di autonomia politica nelle municipalità, nei villaggi e nelle città, sulla base di quel modello di federalismo democratico. Così, le città liberate di Dêrik, Girkê, Legê, Tirbê Spiyê, Qamislo, Amudê, Dirbêsiyê, Serêkaniyê, Tiltemir, Kobanê e Efrin costituiscono ora dei modelli di autogoverno in cui sono state create delle istituzioni scolastiche in lingua curda, dei comitati curdi chiamati a gestire la cosa pubblica nel rispetto delle minoranze presenti sul territorio, delle cooperative che sappiano far fronte al blocco economico imposto dalla Turchia e dai gruppi islamisti radicali delle forze ribelli.

Il popolo curdo prosegue la sua lotta per l’autodeterminazione, resistendo nelle diverse condizioni e a fronte di situazioni instabili e precarie, che possono però contribuire a far crollare quell’immensa prigione che da troppo tempo mantiene rinchiuso un intero popolo. Accusare i curdi di collaborare con il regime di Assad piuttosto che con le forze dell’esercito siriano libero, significa non tener conto della situazione curda, del genocidio culturale che da sempre incombe su questa popolazione e che da sempre, sulle montagne e lontano dagli occhi ciechi della comunità internazionale, viene combattutto da un popolo intero, giorno dopo giorno.

Non è sempre evidente distinguere l’odio e la rabbia, schivare la tentazione facile del rancore verso un’intera popolazione che ha permesso e permette tuttora il consumarsi dell’oppressione di un altro popolo: il tentativo di cancellazione di una cultura. A dirlo è Rêzan, a conclusione del suo viaggio nei ricordi di quella terra che è stato costretto ad abbandonare. Non è mai facile riconoscere il vero nemico e incanalare la rabbia – precisa – ma è doveroso combattere a monte le cause dell’odio e non colpevolizzare chi è ugualmente, seppur in altra misura, succube di quelle strutture mentali e politiche che giustificano un regime e banalizzano un genocidio.

Il vivere insieme è necessario e naturalmente possibile purché sia fatto nella libertà, nel rispetto e nella valorizzazione delle tante e diverse libertà che colorano la terra: dalle pianure bagnate dal mare fino alle montagne ai confini col cielo.

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(1) Abdullah Ocalan, Guerra e Pace in Kurdistan. Prospettive per una soluzione politica della questione curda, Iniziativa Internazionale, 2010, p. 32.