Dalle carceri di Lampedusa ai tunnel di Calais,
dalle isole della Grecia alle vite semiclandestine
nei paesi nordici, dai campi profughi della Libia
ai centri di permanenza temporanea in Europa, il
flusso dei migranti segue un itinerario sinuoso e
cosparso di ostacoli, e pur tuttavia continua inar-
restabile a varcare le frontiere degli Stati-nazioni
e dei loro muri, fisici e simbolici. Del resto, le
barriere fisiche e le istituzioni totali che gli Stati e
i governi innalzano ai confini sono per loro natura
privi di senso ed efficacia, sono manifestazione
violenta di un potere che si sente minacciato di
fronte all’arrivo di nuove idee e possibili forme di
autorganizzazione difficili da classificare e con-
trollare.
Nell’isola di Lesbos, in Grecia, il flusso dei
migranti è in piena da tre mesi a questa parte:
dalle vicine coste turche nei pressi di Izmir, circa
mille persone attraversano ogni notte gli otto
chilometri di mare su imbarcazioni improvvisate
– gommoni lunghi sei metri su cui si ammassano
più di trenta persone – che poi abbandonano sulle
spiagge greche. Il viaggio è una scommessa e un
investimento economico importante, insostenibile
per molti: un posto sul gommone costa in media
1000 euro al mercato nero dell’emigrazione turca,
dopodiché non c’è nessuna garanzia di arrivare
sani e salvi dall’altra parte o di riuscire ad eludere
le guardie costiere. Profughi e gommoni, comun-
que, sbarcano ogni giorno e ogni giorno si scon-
trano con la mancanza assoluta di aiuti da parte
delle autorità locali, degli Stati europei o delle
Ong impegnate nel soccorso umanitario. Anzi,
dietro la loro assenza appare chiara la volontà di
ostacolare il flusso dei migranti, rendendo insop-
portabili le loro condizioni. Basti pensare che
quasi tutti i profughi sbarcano a Molivos – estre-
mo nord di Lesbos – e per poter lasciare l’isola
e poi la Grecia, per poter proseguire il cammino
verso la loro destinazione finale, devono recarsi
nella città di Mitilene, sessanta chilometri più a
sud. Lì otterranno una prima registrazione presso
l’ufficio di polizia portuale, aspetteranno giorni
o addirittura settimane nei due campi profughi di
Moria e Kara Tepe e infine otterranno un foglio
di carta che garantirà loro la libertà di movi-
mento della durata di un mese. A quel punto, se
non lo avranno fatto prima, saranno obbligati a
lasciare la Grecia e proseguire in direzione della
Macedonia; chi invece non avrà i soldi per pro-
seguire – anche solo per comprare il biglietto del
traghetto da Mitilene ad Atene (45$) – sarà con-
siderato clandestino e, se sorpreso dalla polizia,
verrà prima incarcerato e poi espulso, deportato
nel paese che ha lasciato.
La violenza strutturale insita nell’accoglienza ai
migranti in Europa si manifesta in più modi. Il
primo di questi è la crudeltà umana a sfondo raz-
zista secondo la quale, per legge, non è permesso
ai profughi non ancora registrati di salire su un
mezzo pubblico, di prendere un taxi o di ottenere
un passaggio in automobile dai privati cittadini
greci. A causa di questa restrizione, i migranti –
tra cui gli anziani, i bambini, i malati e le donne
incinte – sono costretti a precorrere a piedi la
distanza fra Molivos e Mitilene: 60 chilometri
sotto il sole cocente, senza cibo e senza acqua.
Una volta giunti a Mitilene, dopo uno o più spes-
so due giorni di cammino, ai migranti è riservato
un nuovo trattamento violento. Si tratta del siste-
ma di controllo e classificazione che ha luogo
nell’ufficio della polizia portuale e che ha come
obiettivo quello di accertare l’identità di tutti i
profughi. Questi sono infatti chiamati a lasciarsi
verificare i dati personali, dopodiché vengono
fotografati. In cambio ricevono un foglio di carta
e vengono indirizzati in uno dei due campi pro-
fughi vicini alla città, dove devono aspettare per
giorni affinché i loro dati siano elaborati e venga
dato loro il lasciapassare della libera circolazione
(comunque limitata e strettamente sorvegliata).
La violenza cui sono sottoposti è parte integrante
dello stesso sistema di classificazione e del con-
trollo totale che esso comporta: il migrante, che
è nella maggior parte dei casi un semplice essere
umano senza alcun documento, entra in questo
modo nei database degli Stati e smette di fatto di
essere una persona, trasformandosi in un sempli-
ce numero. Nel momento in cui farà domanda di
asilo in un paese piuttosto che un altro, la sua sto-
ria personale e le sue motivazioni passeranno in
secondo piano, mentre il criterio principale adot-
tato per decidere se concedergli o meno il diritto
di restare sarà di tipo statistico e servirà a giustifi-
care la risposta secondo cui “la barca è piena”.
Il processo di violenta disumanizzazione dei
migranti a Lesbos si rispecchia poi nelle con-
dizioni in cui essi devono stazionare nei campi
di Moria e Kara Tepe. Il primo, un ex carcere
che sembra ancora in funzione a tutti gli effet-
ti, ospita circa 1000 persone al suo interno e un
altro migliaio nel perimetro circostante, mentre
nel secondo si ammassano quasi 3000 persone.
In entrambe le aree mancano servizi igienici (ve
ne sono circa otto, intasati e non funzionanti), la
distribuzione di cibo è misera (un pezzo di pane
al mattino e una zuppa la sera) e irregolare e non
c’è nessun tipo di aiuto medico. In altre parole,
i migranti sono completamente abbandonati al
loro destino e anzi sembra chiaro che le autorità
fanno di tutto per ostacolare il loro percorso, dal
momento della prima accoglienza in Europa fino
a quello in cui, più avanti, li rinchiuderanno nei
centri di permanenza temporanea o li rispediran-
no indietro.
Alla violenza del sistema secondo cui i governi
europei si occupano della questione profughi, a
Lesbos si è concretizzata da due anni a questa
parte una risposta basata sui principi della soli-
darietà, del consenso e della multiculturalità. Di
fronte alla crisi umanitaria si è costituita una rete
di compagne e compagni che insieme ad alcuni
migranti hanno occupato e tuttora gestiscono
uno spazio in cui quasi un centinaio di profughi
trova casa in piccoli prefabbricati in legno e in
condizioni di vita più che dignitose. Ogni giorno,
a Pikpa (così si chiama lo spazio) si concretizza
una convivenza reale fra siriani, afghani, iracheni,
curdi, greci, e altri volontari provenienti da tutta
Europa, le decisioni vengono prese secondo la
logica del consenso e lo scambio culturale è assi-
curato.
Quel che più interessa del progetto è sicuramente
la capacità di gruppi e singoli di autorganizzarsi e
proporre un’accoglienza ai migranti che sia paci-
fica, inclusiva e orizzontale, e che in questo modo
sappia trasformarsi in una cooperazione costante
che è parte del vivere insieme.
Da Lesbos, l’accoglienza offerta ai migranti pro-
segue fino ad Atene, nel quartiere autogestito di
Exarchia, a sua volta parte di una rete di contatti
in tutta Europa: una geografia della solidarietà e
del mutuo aiuto, dal basso, lontana dal controllo
e dalla repressione statale, che radicandosi nel
fenomeno dell’immigrazione propone e attua il
cambiamento.
agosto 2015