SEMAFORO KARA TEPE

Un semaforo illuminato indica il percorso nel campo profughi di Kara Tepe, Mitilene, sull’isola di Lesbos, Grecia. All’interno dell’area recintata, alcuni elementi segnano la contraddizione e richiamano i tempi passati che la ruggine e l’oblio, a passo lento ma incessante, seppelliscono sotto una coltre nostalgica: una giostra, uno scivolo, una gradinata e una scritta al muro, l’elenco dei nomi di chi un giorno ha composto una squadra di calcio; probabilmente la partita è stata persa. Prima di diventare una discarica di uomini e rifiuti, Kara Tepe era uno spazio pubblico di aggregazione, un luogo e un momento ricreativo per giovani e bambini, ritagliato con cura fra gli ulivi della collina di fronte a Mitilene, la città che fu di Saffo.

Ahmed è appena arrivato al porto dopo che durante la notte è sbarcato insieme ad altri emigranti nei pressi di Molivos, estremo nord dell’isola: i piedi doloranti dal lungo camminare e un inglese quasi perfetto, dice che il suo paese, la Siria, era più che un paese, era un terreno fertile di speranza. Aveva un lavoro, una famiglia e una casa; la bambina che dorme stravolta sulle sue spalle è nata agli albori della rivoluzione, quando il regime sembrava agonizzante e nessuno si aspettava i risvolti terribili di una guerra civile che sembra non finire mai. A Kara Tepe il semaforo è illuminato ventiquattro ore al giorno: di rosso, di giallo e di verde. Non c’è alternanza fra i colori. C’è chi arriva e si ferma, c’è chi attende già da giorni, c’è chi parte ma non sa dove andare. In coda al semaforo ci sono migliaia di migranti come Ahmed, che dopo una prima registrazione al porto verrà invitato dalle autorità a raggiungere il campo profughi, dove rimarrà per giorni, magari settimane, prima di ottenere un foglio di carta bianco valido un mese e necessario per lasciare la Grecia. Il lasciapassare verde del semaforo acceso. Allora, se avrà i quaranta euro per sé e per sua figlia, potrà acquistare il biglietto del traghetto e abbandonare l’isola: direzione Atene, l’Europa vera; poi si vedrà. La maggior parte dei migranti ha per meta finale la Germania. “Perché in Germania il governo ci aiuterà, lì c’è speranza anche per noi profughi”: così ripetono le voci ancora illuse di chi scappa dalla guerra e dal terrore, dalla prigione e dalla morte. Il semaforo di Kara Tepe, intanto, rimane acceso anche per il popolo greco, che dall’Europa ha ricevuto ricatti e austerità. Lo dimostrano le code interminabili davanti ai bancomat, lo spiegano i taxisti che attendono in piedi o le verande chiuse dei piccoli esercizi: tutti vittime di una crisi economica destinata a peggiorare.

Una crisi umanitaria

Nell’isola di Lesbos e in altre della Grecia orientale, da due mesi a questa parte l’emergenza è ancor più grave, la crisi è umanitaria. Da gennaio 2015 il numero dei migranti arrivati dalle vicine sponde turche è di più di 68000. Ogni giorno sbarcano in media mille persone, le quali attendono una registrazione e si ammassano nel campo profughi di Kara Tepe o in quello ufficiale dell’ex carcere di Moria. Il primo ospita circa tremila rifugiati, il secondo, pensato per cinquecento persone, ne ospita il doppio nelle strutture interne e un altro migliaio nel perimetro circostante. Le autorità cittadine ammettono di non avere più fondi per assicurare cibo per tutti e si lamentano della mancanza assoluta di aiuti da parte degli Stati europei; anche le ONG più grandi sembrano patire forti limiti di manovra e perciò è solo auspicabile che nelle prossime settimane verrà quantomeno offerta un’assistenza medica in entrambi i campi. Oltre alla saltuarietà nella misera distribuzione del cibo, le condizioni igieniche si fanno giorno dopo giorno più sgradevoli: basti pensare che a Kara Tepe, così come all’esterno del campo di Moria, vi sono soltanto otto servizi igienici, naturalmente intasati e fuori uso da tempo, e nessuna doccia. Le migliaia di persone, tra cui le donne e gli anziani, sono costretti ad arrangiarsi come possono fra un albero e l’altro, quando ve ne sono, dopodiché la densità di popolazione nel campo non permette loro di trovare un terreno pulito su cui dormire. Kara Tepe e l’area esterna al campo di Moria sono una vera e propria discarica: ci sono gli odori e l’acqua stagnante, ci sono i rifiuti, quelli organici e di plastica, oppure i vestiti e le scarpe rotte dei migranti di ieri. Ci sono gli insetti, i batteri e le malattie che si contagiano. Ci sono, prima o forse alla fine di tutto, gli uomini, le donne e i bambini scappati dalla Siria, dall’Iraq, dall’Afghanistan, dal Pakistan, dal Sudan o da altrove. Messi in fuga dalle atrocità dell’Isis, dai regimi e dai governi, in cerca di un posto in cui vivere senza la minaccia costante di una morte annunciata.

Il cammino dei migranti

Lesbos è la principale destinazione obbligata per chi è riuscito a raggiungere la Turchia e ad attraversarla senza essere arrestato. Il semaforo di Kara Tepe diventa verde per circa settecento esseri umani al giorno: il loro cammino prosegue verso la Macedonia, la Serbia, la temutissima Ungheria e poi la bramata Europa centro-settentrionale.

Mohammed ha diciassette anni ed è musulmano sciita, proviene dal villaggio di Meidan Wardak, Afghanistan centrale, da anni bersaglio dei gruppi armati talebani. Viaggia con il suo migliore amico, un uomo anziano e una decina di altri afghani, connazionali incontrati sul cammino. È dalle immagini in televisione, dal cinema americano e dai racconti di alcuni – spiega con un tono di soffusa vergogna – che ha coltivato il sogno europeo della vera libertà: se arriverà in Svezia sano e salvo, se le autorità gli permetteranno di rimanere e non lo deporteranno in Afghanistan, spera che la sua famiglia lo possa raggiungere e sogna di diventare ingegnere. Essere utile a qualcuno e a se stesso, poter scegliere il proprio destino e crescere in pace. Questa è la vita che insegue. Per farlo, insieme ai pochi amici e ai compagni di viaggio, sta camminando da circa un mese e mezzo: perché non ha i soldi per utilizzare i trasporti pubblici, perché non ha alcun documento e quindi la legge glielo impedisce o perché pensa che in questo modo è un po’ più al sicuro. A Kara Tepe, Mohammed per il momento ha trascorso due giorni. Quattro ne sono passati da quando ha lasciato le coste turche vicino a Izmir e ha attraversato gli otto chilometri di mare, raggiungendo il nord dell’isola di Lesbos, le sue spiagge più vicine. Un viaggio, quest’ultimo, che è un’incognita per tutti i migranti ed è mosso dalla sola forza della disperazione: più di cinquanta persone su un gommone lungo sei metri, un biglietto illegale acquistato al mercato nero per mille euro circa, a volte più, la paura di non avere abbastanza benzina o di ribaltarsi, il terrore dell’acqua, del mare aperto, la possibilità concreta di morire affogati. Poi la riva, la Grecia, come per miracolo, anche se la terra sembra uguale a quella lasciata e nessuno è sicuro che sia davvero l’Europa della speranza. Un indizio, una sicurezza, la offrono le altre centinaia di migranti che come ogni mattina sbarcano sulle stesse rive, sono i gommoni abbandonati fra gli scogli. Poi un indirizzo, il porto di Mitilene, che però dista sessanta chilometri e di per sé è un semaforo rosso. Inizia così un nuovo cammino e forse anche peggiore di quelli precedenti. Sotto il sole cocente, centinaia di profughi camminano fino a stremarsi: un fiume umano che ogni giorno attraversa l’isola di Lesbos da nord a sud, fatto di giovani e di anziani, di famiglie con bambini piccoli, a volte neonati. Chi cammina rapido impiega venti ore, gli altri sono costretti a fermarsi per strada e passare la notte sul cemento, insieme alla fame, alla sete e alla speranza di un aiuto da parte delle autorità che però non arriverà mai. La destinazione a breve termine rimane sconosciuta, ma per i più – anche per Mohammed – è un pensiero di sollievo: un po’ di riposo, del cibo e una doccia. Ma per i profughi, esseri umani senza un documento, la realtà non corrisponde quasi mai alle aspettative.

Una questione europea

Fra i greci e non solo, c’è chi considera il quotidiano flusso umano un’ulteriore minaccia alla propria integrità economica e culturale e c’è chi invece si organizza e cerca di aiutare come può, anche solo con una bottiglia d’acqua o qualcosa da mangiare. Questi ultimi, però, si scontrano spesso con le regole del diritto. Come quelle della legge, cambiata soltanto pochi giorni fa, che dichiarava illegale l’offerta di un passaggio in automobile ai migranti che ancora non sono stati registrati. Quale deterrente alla solidarietà, la possibilità di essere arrestati: è quanto accaduto a due signore locali – poi assolte a processo – che hanno agevolato il percorso a una donna incinta e ad alcuni bimbi malati. Del resto, c’è chi sostiene che l’unico modo per impedire l’arrivo di nuovi profughi sia quello di rendere insopportabili le condizioni di chi li ha preceduti.

Il semaforo di Kara Tepe, col suo luccicare terso e un po’ beffardo, non può arrestare il cammino delle migliaia di persone che hanno urgenza e diritto di vivere; piuttosto, segna l’apice di una violenza strutturale dovuta alla mancanza di aiuti umanitari dall’esterno, decreta senza appello che la paura, l’odio e la deresponsabilizzazione consumano impassibili una tragedia silenziosa.