SINDACALISMO E LIBERAZIONE NAZIONALE

 

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Nel Sahara Occidentale, territorio occupato militarmente dal Marocco, i lavoratori sahrawi subiscono discriminazioni quotidiane. La loro organizzazione nel sindacato è una lotta per ottenere condizioni degne e al contempo per liberare il territorio dall’occupazione.

Essere sahrawi nel Sahara Occidentale è pericoloso: può bastare per venire arrestato, essere torturato e forse sparire per sempre senza che nessun registro ne lasci traccia. Essere attivista nel Sahara Occidentale equivale quasi a una condanna a morte, o quantomeno a una repressione ferrea: chiedere che vengano rispettati i diritti fondamentali quali la sanità, l’educazione, il lavoro e la libertà di espressione, è chiedere assolutamente troppo.

Eppure, essere sahrawi nel Sahara Occidentale è la cosa più normale che ci sia, poiché si tratta della popolazione autoctona che da secoli abita quella che viene definita l’ultima colonia africana, situata fra il Sud del Marocco e il Nord della Mauritania, sulla costa Atlantica a Ovest dell’Algeria. Stiamo parlando dell’imbuto del Nord Africa, una regione estremamente delicata per quanto riguarda gli equilibri geopolitici internazionali: da lì passano i traffici di droga destinati all’Europa, passano le armi e le milizie jihadiste, passa la tratta dei migranti diretti a Nord.

Il Sahara Occidentale è un territorio occupato militarmente da 44 anni a questa parte. Il Regno del Marocco, potenza occupante, detiene il controllo amministrativo e il monopolio della forza, lo considera un prolungamento del proprio territorio e insieme alla fede in Allah e alla devozione al Re ne fa un elemento centrale per coltivare il sentimento nazionalista. Gli interessi economici in gioco sono tutt’altro che secondari: nelle acque dell’Oceano Atlantico appartenenti al Sahara Occidentale, il Marocco pratica una pesca selvaggia, così come nell’oasi di Dakhla, a Sud dei Territori, coltiva grandissime quantità di frutta e verdura. Tutti questi prodotti sono destinati al commercio internazionale: un’etichetta basta per camuffarne l’origine e spacciarla come se fosse di provenienza marocchina. Eppure, la Corte di Giustizia Europea e il Diritto Internazionale stabiliscono che i prodotti provenienti dal Marocco devono essere ben differenziati da quelli provenienti dal Sahara Occidentale, in quanto questa regione è considerata, fin dal 1963, un territorio non autonomo e sul quale il Marocco non può avanzare alcuna pretesa agli occhi del Diritto Internazionale.

Ma sono 44 anni che il Diritto Internazionale e la dignità del popolo sahrawi vengono calpestati: tutto iniziò con la cosiddetta Marcia Verde del 6 novembre 1975: 300’000 civili marocchini accompagnati da soldati e blindati, penetrarono nel Sahara Occidentale e di fatto ne strapparono il controllo alla precedente forza occupante, la Spagna di Franco, chepoco prima aveva lasciato il territorio senza amministrazione. Circa due terzi della popolazione originaria sahrawi vennero messi in fuga e trovarono rifugio in quelli che ancora oggi sono i campi profughi nel deserto dell’Algeria, dove si ammassano più di 173000 persone in condizioni estremamente precarie e nell’attesa di un futuro. La resistenza di fronte all’invasione venne invece dal Fronte Polisario, il legittimo governo – tuttora in esilio – del popolo sahrawi, che il 27 febbraio 1976 annunciò la nascita della Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi. Ciò costò 15 anni di guerra contro il Marocco, il quale costruì un muro lungo 2700 km costeggiato da quasi 7 milioni di mine per separare i territori sotto il suo controllo da quelli amministrati dal Fronte Polisario, una porzione di terra comunque molto limitata e priva di qualsiasi risorsa. Nel 1991, intervennero le Nazioni Unite e convinsero le due parti a firmare un Cessate il Fuoco, con in cambio l’impegno a organizzare, di lì a 6 mesi, un Referendum per l’autodeterminazione: il popolo sahrawi avrebbe votato per decidere se entrare a far parte del Regno del Marocco oppure essere indipendente. Ma qualcosa è andato storto, poiché a 29 anni di distanza il Referendum rimane ancora una promessa molto vaga, la metà del popolo sahrawi continua a vivere in esilio nei campi profughi in Algeria e la gioventù non ha alcuna prospettiva per il futuro. Nel frattempo, essere sahrawi nei Territori Occupati è diventato sempre più pericoloso.

Lo dimostra il caso di Sidi Ahmed Deja che ha speso tutta la vita per difendere i diritti del popolo sahrawi e lo ha fatto in un modo particolare: attraverso l’attività sindacale. Sidi Ahmed Deja è stato il fondatore della Confederazione Sindacale dei Lavoratori Sahrawi (CSTS) e il suo principale rappresentante fino alla morte, avvenuta circa due anni fa in modo molto sospetto all’interno dell’ospedale di Laayoune. Qualche mese prima, nostro padre aveva avuto un piccolo infarto, per cui regolarmente doveva recarsi dal medico per delle visite; quel giorno, nostro padre entrò vivo nell’ospedale per la consueta visita medica, e non ne uscì più. Nessuna investigazione fu concessa da parte delle autorità occupanti. È quanto afferma il figlio Sidi, incontrato in segreto in quella che si è trasformata in una riunione clandestina con vari membri del sindacato e che è poi costata ore di interrogatorio ai partecipanti e l’arresto e l’espulsione di chi scrive: una dimostrazione chiara di come ai giornalisti sia vietato entrare nel Sahara Occidentale senza aver chiesto un’autorizzazione previa alle autorità occupanti, e di come al popolo sahrawi sia proibito esprimere la propria sofferenza.

Il Sindacato dei Lavoratori e dei Disoccupati Sahrawi è un’organizzazione clandestina, per quanto riconosciuta internazionalmente e gemellata con molti altri sindacati in Africa e in Europa. Nasce e si sviluppa come una risposta a una duplice urgenza: la prima, difendere i diritti dei lavoratori sahrawi e di chi fra loro il lavoro lo ha perso per il semplice fatto di essere sahrawi; la seconda, resistere all’occupazione. Il sindacato è attivo principalmente a Boucra, una cittadina a est di Laayoune (capitale del Sahara Occidentale) in cui si trova la più grande miniera di fosfato della regione. L’impresa in cui sono impiegati i lavoratori è la corporazione Phosboucraa, sussidiaria del gigante dello sfruttamento agricolo OCP, protetto dall’agenzia di sicurezza britannica G4S, conosciuta fra le altre cose anche per per tutelare le colonie israeliane in Palestina.

Così come frutta e pesci, il fosfato è una risorsa naturale che arricchisce il territorio del Sahara Occidentale e che gli viene illegalmente sottratta dal Marocco. Ma non è tutto: nella miniera di fosfato di Boucra, si realizzano molte altre efferatezzedell’occupazione, prima fra tutte la discriminazione nei confronti dei lavoratori sulla base della loro appartenenza etnica. I sahrawi vedono i loro diritti sindacali calpestati ogni giorno, ricevono un salario minore rispetto ai lavoratori di nazionalità marocchina e possono essere licenziati da un momento all’altro, come raccontano i testimoni. Da qui, la necessità del sindacato di abbracciare anche la categoria dei disoccupati: “Il disoccupato sahrawi è immagine della società sahrawi perché le sue sofferenze sono le sofferenze di tutta la popolazione. La forza occupante lo mette di fronte a due possibilità: vivere nella miseria oppure emigrare all’estero”, racconta un ragazzo che ha perso il lavoro poco tempo fa. Quella dell’esilio, del resto, è l’opzione voluta dal Marocco, che attraverso l’esclusione nell’accesso al lavoro e ai servizi di base obbliga i giovani sahrawi a lasciare la propria terra, mentre al contempo offre incentivi alle famiglie marocchine per trasferirsi nel Sahara Occidentale e vivere da coloni. La stessa impresa – viene specificato da qualcuno che ne ha subito le conseguenze sulla propria pelle – contribuisce al processo di colonizzazione del Sahara Occidentale poiché favorisce l’arrivo di lavoratori marocchini, ai quali offre degli alloggi a pigione estremamente moderata che prima appartenevano alle famiglie sahrawi.

Fra le due scelte concesse dall’occupante – la miseria o l’esilio – il Sindacato dei Lavoratori e dei Disoccupati Sahrawi ha scelto una terza via: la lotta, che nel contesto locale è sinonimo di resistenza.

Manifestazioni settimanali, scioperi, rivendicazioni di condizioni di lavoro degne sono fra le principali attività dell”organizzazione, che ha però anche bisogno di un eco internazionale e di una rete di appoggio per diffondere la propria voce. La repressione da parte delle forze armate marocchine è ferrea e costante, con pestaggi, arresti, torture e violazioni dei diritti umani.

Ma non c’è alternativa, questa terza possibilità è l’unica possibile: perché è lì che si concretizza la sovrapposizione fra “attività sindacale e lotta per la liberazione del popolo sahrawi”.