POPOLI INDIGENI E SCIOPERO NAZIONALE

Il 7 maggio 2021, a poco più di una settimana dall’inizio delle sollevazioni popolari del Paro Nacional, un gruppo di giovani del popolo indigeno Misak abbattevano a Bogotá la statua dello spagnolo Gonzálo Jimenez de Quesada, a cui si attribuisce la fondazione della capitale della Colombia.

In un comunicato a poche ore dai fatti, i manifestanti rivendicavano l’atto in nome della “recuperazione di uno spazio fisico e simbolico, sottraendolo alle violazioni che da secoli sono state perpetrate da parte dei sicari della conquista”.

Oltre un mese pù tardi, il 9 giugno, mentre le mobilitazioni si protraevano a oltranza nel nome di el paro no para,manifestanti indigeni dello stesso gruppo etnico abbattevano la statua di Cristobal Colón e danneggiavano quella della regina Isabella di Castiglia, detta “La cattolica”. Claudia Lopez, sindaca di Bogotá, non tardava a condannare pubblicamente e con estrema risolutezza tali violenze rivolte al passato e alla memoria; quasi al contempo, in un intervista rilasciata nelle strade, un manifestante appartenente al popolo Misak specificava che “questa terra non è quella degli spagnoli, bensì quella dei popoli indigeni”.

Nella molteplicità delle forme di lotta e delle rivendicazioni, nell’eterogeneità della piazza e delle mobilitazioni, la questione indigena è di primaria importanza, e dato il contesto attuale oltre che storico sarebbe impossibile negarlo. Per quanto percentualmente limitata rispetto ad altri paesi sudamericani (4,4% della popolazione – 1.905.617 persone),1 la popolazione indigena in colombia è ben presente, come dimostra il censo nazionale del 2018 che ha registrato 115 popoli indigeni presenti in tutto il paese. I dipartamenti in cui si concentrano maggiormente le popolazioni indigene sono Guajira (394’683 abitanti), Cauca (308’455), Nariño (206’455), Córdoba (202’621) e Sucre (104’890). Al contempo, i principali popoli indigeni presenti su suolo colombiano per numero di abitanti, sono i Wayuu (380’460 persone), gli Zenú, (307’091), i Nasa, (243’176) e i Pastos (163’873).

Il CRIC – Consejo Regional Indígena del Cauca conta 10 popoli indigeni e 127 autorità ancestrali, è figlio della resistenza indigena di fronte all’etnocidio che ha caratterizzato gli ultimi 500 anni e, più recentemente, delle lotte per la terra e l’identità portate avanti lungo il seccolo XX, in particolare quelle di Martin Quintín Lame e poi dalla Asociación nacional de Usuarios Campesinos (ANUC). Edwin Guetio, coordinatore del settore per la difesa e la promozione dei Diritti Umani, ci spiega in quale situazione si trovano attualmente i popoli indigeni del Cauca colombiano e quale è stato finora il loro coinvolgimento nel Paro Nacional:

 

Terra e territori

Ha ragione Claudia Lopez, sindaca di Bogotá: le statue sono il passato e la memoria. Attaccarle, però, è un atto simbolico che riporta indietro l’attenzione, aiuta a non dimenticare. Non sorprende, dunque, che le mobilitazioni dello sciopero nazionale iniziato lo scorso 28 aprile 2021 abbiano voluto andare a toccare anche quella che è indubbiamente una delle radici dei tanti problemi strutturali di questo paese. Non sorprendono nemmeno le parole dei manifestanti indigeni in quanto ai soprusi perpetrati dai colonizzatori spagnoli e al diritto at erra e territori.

È forse proprio quest’ultimo punto il centro e l’origine della discrimanzione storica contro i popoli indigeni e gli altri considerati “marginali”: la proprietá privata della terra, l’accumulazione e la sottrazione delle proprietá collettive ancestrali. In questo processo storico, si individuano tre momenti fondamentali: il primo coincide con l’espropriazione della terra durante i secoli XVI e XVII – subito dopo la fine della resistenza armata delle comunitá indigene del Cauca – e la costituzione delle grandi haciendas; il secondo momento corrisponde con l’espansione del latifondismo durante il secolo XIX e XX, quando alcune grandi famiglie ottennero titoli di proprietà privata a scapito della proprietá collettiva tradizionale dei popoli indigeni; il terzo e più recente momento coincide con l’epoca della “Violenza” degli anni ‘50 del 900, che aumentó considerabilmente l’accumulazione delle terre nelle mani di pochi. Il lungo conflitto interno, la privatizzazione ulteriore e la militarizzazione dei territori con il fenomeno del paramilitarismo, contribuirono poi a fare il resto durante i decenni successivi. La situazione attuale non si distanzia di molto da quella degli anni scorsi, basti pensare che il 60% della terra della regione del Cauca risiede nelle mani del 7,8% della popolazione, mentre l’85% dei piccoli proprietari possiede solo il 26% della terra, che viene inoltre classificata con livello di fertilitá basso o molto basso. Rimangono poi le altre problematiche di sempre, come il controllo militare dei territori, le coltivazioni illegali destinate al narcotraffico e le monocolture, prima fra tutte quella di canna da zucchero. Per quanto riguarda i cosiddetti resguardos indígenas – territori appartenenti alle popolazioni indigene – va segnalato che la loro autonomia viene spesso violata sia da gruppi armati di vario tipo sia dalle forze statali, mentre il settore impresariale non perde occasione per chiederne la riduzione in termini di estensione.

Autonomia e partecipazione

Vi è un altro asse parallelo nel processo di discriminazione ed esclusione storica delle popolazioni indigene: la loro considerazione e rappresentanza all’interno dello spazio pubblico e politico, i diritti concessi e riconosciuti dalla legge, la loro efficacia. A tal proposito, la Costituzione del 1991, cosiddetta Costituzione dei Diritti Umani arrivata dopo 105 anni dalla precedente, ha segnato una svolta storica, almeno sulla carta. Prima di allora le popolazioni indigene non godevano di alcun tipo di riconoscimento di fronte alla legge, tanto che la Costituzione del 1886 non ne menzionava nemmeno l’esistenza. In generale, l’impostazione portata dagli spagnoli e il modus operandi di fronte agli indigeni si mantenne anche dopo l’Indipendenza nazionale e si tradusse nell’uniformitá etnica, religiosa e linguistica. Ne è un chiaro esempio la legge 89 del 1890, che elevò ulteriormente il livello di violenza e assimilazione nei confronti delle popolazioni indigene: l’idea era quella di portare i “selvaggi” alla “civiltà”, l’imposizione della religione cattolica era una condizione sine qua non.

30 anni fa, al momento della creazione dell’Assemblea Costituente, per la prima volta nella storia vi fu una rappresentazione indigena costituita da Lorenzo Muelas, Francisco Rojas Birry e l’ex guerrigliero Alfonso Peña Chepe. I risultati furono importanti: divieto costituzionale del razzismo, garanzie per la rappresentazione e la partecipazione politica indigena, riconoscimento dell’autonomia nei resguardos e delle specificià culturali in termini di organizzazione sociale e della proprietà, usi e costumi, educazione, medicina tradizionale. In generale, il principale obiettivo raggiunto fu il riconoscimento della diversità etnica e della multiculturalità, confermato dalla ratifica della Convenzione 169dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Una vittoria su più livelli nonostante varie lacune, prima fra tuttel’assenza di un capitolo esplicito dedicato ai diritti etnici e indigeni; al tempo stesso, però, una minaccia per l’oligarchia al potere e le sue mire di controllo sull’intero territorio nazionale.

Proprio da lì sembra derivare buona parte della violenza che oggi continua a perpetrarsi:

Paramilitarismo urbano

Lo sciopero nazionale ha sicuramente esacerbato il grado di violenza a cui si deve confrontare l’opposizione sociale in Colombia, e in tale contesto le popolazioni indigene sono state attaccate da più parti. Emblematico è quanto avvenuto lo scorso 9 maggio a Cali, quando un gruppo di civili armati ha aperto il fuoco contro la minga indígena. Un fatto allarmante in quanto rappresenta l’uscita alla luce pubblica di un fenomeno definibile come paramilitarismo urbano, finora rimasto più o meno nascosto nell’immensa zona grigia della continuità fra simili atti e gli altissimi livelli di impunità.

Ma per meglio capire alcuni meccanismi dell’apparato repressivo dello Stato, ancora una volta occorre fare un salto nel passato, quando il 30 maggio 1999 l’Esercito di Liberazione Nazionale (ELN) commise uno degli attentati più eclatanti della sua storia, conosciuto come il Secuestro en la Iglesia La Maria, avvenuto nel quartiere Ciudad Jardín della cittá di Cali. Decine di guerriglieri dell’ELN proruppero all’interno della chiesa nel momento della celebrazione religiosa e sequestrarono circa 200 persone, obbligandole a salire su dei camion che li portarono nelle montagne circostanti. Tutti furono poi liberati ma il bilancio fu comunque pesante: 3 morti e 1 ferito.

Ebbene, nel momento in cui, 22 anni più tardi, gli indigeni del Valle del Cauca si mobilitavano per raggiungere le manifestazioni del Paro Nacional a Cali, il solito Álvaro Uribe Veléz, in un tweet poi rettificato, “confondeva” la bandiera rossoverde del CRIC con quella rossonera dell’ELN, e allarmava la popolazione civile sull’imminente arrivo in città dei guerriglieri:

Grupo terrorista ELN en Jamundí, Valle. El camino es apoyar la acción de las Fuerzas Armadas con estricta observancia de la Consitución; evitar el avance de la defensa privada armada. No repetir preferencia del terrorismo sobre las Fuerzas Armadas, se sufren consecuencias”.

In altre parole, si trattava di un gravissimo atto di diffamazione nei confronti del CRIC e di un forte incitamento alla violenza: il risultato non poteva di certo essere una sorpresa, e non a caso avvenne nello stesso quartiere di 22 anni prima, Ciudad Jardín di Cali:

I prossimi passi

Nella sua visita in Colombia avvenuta in giugno 2021 fra le mille polemiche, la Commissione Interamericana dei Diritti Umani (CIDH) ha espresso serie preoccupazioni per quanto mostrato da parte dello Stato in termini di gestione della protesta sociale, di fatto tradottasi in repressione violenta sia a livello fisico che giudiziario. La piattaforma Indepaz ha denunciato che dall’inizio del Paro Nacional e fino al 24 junio, 75 persone sono state uccise. In un rapporto dell’anno scorso, giugno 2020, la stessa organizzazione sottolineava che dal 2016, anno della firma degli Accordi di Pace, 269 attivisti indigeni erano stati assassinati. Nel solo 2021, dei 79 attivisti sociali uccisi in tutto il paese, 26 risultano essere indigeni.

Sono cifre impressionanti e che dipingono in maniera esaustiva lo scenario di “pace fragile” che vive il paese, in cui ampi settori al potere non hanno alcuna intenzione di invertire la rotta e sono pronti a rispondere come hanno sempre fatto: con la forza e la violenza.

Allo stesso tempo, lento ma irreversibile, nell’intersezsionalità della lotta procede il cammino verso l’autodeterminazione dei popoli indigeni e di tutti i gruppi etnici considerati “altri”. È un cammino per la vita, per la terra e per la pace, che ha trovato nel Paro Nacional del 2021 un momento di svolta:

 

La Dichiarazione di Quito

Uno degli slogan che più è risuonato in questi mesi di sciopero, è stato il seguente: “a parar para avanzar”, come fosse un intreccio fra cosmogonie e concezioni diverse del tempo, più o meno lineari. Allo stesso modo, è opportuno, un’ultima volta, volgere lo sguardo al passato, tornare all’attualità di oltre trent’anni fa, prima ancora dell’Assemblea Costituente del 1991.

È il 1990, è la Dichiarazione di Quito in occasione del Primo Incontro Continentale dei Popoli Indigeni, si parla di autodeterminazione:

(…) La autodeterminación es un derecho inalienable e imprescriptible de los pueblos indígenas. Los pueblos indígenas luchamos por el logro de nuestra plena autonomía de los marcos nacionales. La autonomía implica el derecho que tenemos los pueblos indios al control de nuestros respectivos territorios, incluyendo el control y manejo de todos los recursos naturales del suelo y subsuelo y espacio aéreo. Asimismo, la autonomía (o soberanía para el caso de los pueblos indios de Norteamérica) implica la defensa y la conservación de la naturaleza, la Pachamama, de la Abya Yala, del equilibrio del ecosistema y la conservación de la vida.

Por otra parte, autonomía significa que los pueblos indios manejaremos nuestros propios asuntos para lo cual constituiremos democráticamente nuestros propios gobiernos (autogobiernos). Exigimos en forma urgente y lucharemos por conquistar las modificaciones de las constituciones de los distintos países de América, a fin de que se establezca en ellas el derecho de los pueblos indios, especificando muy claramente las facultades del autogobierno en materia jurídica, política, económica, cultural y social.

Los pueblos indígenas estamos convencidos de que la autodeterminación y el régimen de autonomía plena sólo podremos lograrlo previa destrucción del actual sistema capitalista y la anulación de toda forma de opresión sociocultural y explotación económica. Nuestra lucha está orientada a lograr ese objetivo que es la construcción de una nueva sociedad plural, democrática, basada en el poder popular”.

 

Popoli indigeni e sciopero nazionale