Ghassan ha quasi cinquant’anni, i capelli più grigi che neri e alcune rughe profonde sul viso segnato dal tempo. I suoi occhi, però, sono grandi e ancora dolci: riflettono la storia e la speranza. Ghassan è palestinese e di mestiere fa l’autista, anche se in realtà è molto di più: traduttore, attivista, esperto di geografia e di ingiustizie. Lavora con gli internazionali presenti in Cisgiordania nelle vesti di osservatori dei diritti umani, li accompagna nelle zone calde del conflitto israelo-palestinese e li avvisa sui pericoli e le prepotenze. La sua, certo, è una posizione di parte, e non potrebbe essere altrimenti. Da tanti anni se non da sempre, ripete a chiunque glielo chieda che lui sta dalla parte degli esseri umani e che profeti e religioni non fanno alcuna differenza: fedele all’Islam, non mostra alcun rancore nei confronti di chi crede in un altro Dio, ebrei compresi; dice che lui e il suo popolo vogliono soltanto essere liberi.
Ghassan è figlio di contadini, ultimo di sette fratelli e tre sorelle. I suoi genitori, così come i suoi nonni e i loro padri, hanno da sempre vissuto e lavorato la terra che dall’attuale città di Aqraba – nel distretto di Nablus – si apre a est sulla Valle del Giordano, quella che un tempo veniva definita “Il giardino di Dio” per la meraviglia dei colori e il sapore dei frutti bagnati dal fiume.
Nato e cresciuto in una tenda accanto agli animali, da piccolo accompagnava i genitori al pascolo nei campi, andava a scuola e insieme si occupava degli affari. Ogni mattina all’alba caricava sulle spalle due o tre forme di formaggio e poi saliva in groppa all’asino, con cui in due ore copriva la distanza che separava la tenda dalla città di Aqraba. Qui, prima ancora dell’inizio delle lezioni, consegnava il prodotto e ritirava i denari, che poi la sera a casa il padre raccoglieva.
Diventare grandi accanto ai soldati
Ghassan ha quasi cinquant’anni ed è nato insieme all’occupazione della Palestina a seguito della Guerra dei Sei Giorni del 1967, quando le forze armate israeliane sconfissero Egitto, Siria e Giordania e imposero il controllo militare sulla Striscia di Gaza e la Cisgiordania. Cresciuto insieme alla presenza dei soldati, non ricorda tempi migliori e anzi questa è stata sempre parte integrante della sua realtà: “Pensavo fossero persone che facevano un mestiere particolare, qualcosa di importante. Per questo si mascheravano, si nascondevano fra gli alberi e portavano armi. Quando vidi quello che i soldati israeliani facevano ai nostri vicini, cominciai a capire che non erano nostri amici, che volevano farci del male. Fu allora che mi feci una prima idea di che cosa fosse l’occupazione”. Un’idea piu chiara, Ghassan se la sarebbe fatta nei tempi successivi, anzi l’avrebbe potuta misurare da sé nella distanza da percorrere ogni mattina all’alba. In un primo momento – racconta l’autista/traduttore – gli israeliani crearono un avanposto militare sulla cima della collina di fronte alla tenda in cui era nato; poche settimane dopo, rapirono tutte le pecore che pascolavano in quelle terre e le depositarono nel recinto di Alkarantin: per recuperarle, suo padre dovette indebitarsi e ricomperarle a caro prezzo alle autorità israeliane. Non contenti, i soldati contaminarono la terra così che buona parte del bestiame si ammalò e morì per avvelenamento. Dopo pecore e terreni, toccò ai pastori: chi veniva sorpreso insieme ai suoi animali in terre che fino a poco prima possedeva, veniva sistematicamente arrestato. Ghassan e la sua famiglia assecondarono il volere delle autorità occupanti il giorno in cui dai campi videro un grande masso scendere giù dall’avamposto militare in cima alla collina e investire, distruggendola, la propria abitazione: “rivedo la mia casa ribaltarsi in aria, sento ancora il rumore. Quel giorno mia madre disse basta, disse che ce ne saremmo andati”.
Figli e genitori ricostruirono una baracca poco lontano, circa mezzo chilometro più vicino alla città. La terra e gli uliveti a disposizione si erano dimezzati, così come la distanza che separava Ghassan dalla scuola. Ma la vita continuava, le abitudini e i mestieri pure: c’era ancora chi comperava il formaggio e ancora l’asino portava a casa scolaro e denari. Nel frattempo, Israele si espandeva in Palestina attraverso la creazione di insediamenti e monopolizzando l’uso e il controllo delle risorse acquifere, ora al sevizio di coloni e cittadini israeliani.
Ottobre in Palestina è il mese della raccolta delle olive, un rito stagionale attorno a cui si erige l’identità di tutto un popolo: “Quando i soldati ci bruciarono i nostri secolari uliveti appena qualche giorno prima del raccolto, mio padre disse basta, disse che ce ne saremmo andati”. Al mercato, il padre di Ghassan vendette il bestiame e acquistò una casa modesta nella periferia di Aqraba: la distanza da percorrere per andare a scuola si era annullata, ridotta a una manciata di minuti di cammino; anche il peso del formaggio sulle spalle rimaneva soltanto un ricordo. “Da quel giorno, mio padre smise di vivere. Aveva perso tutto, non sapeva più chi era: rimaneva chiuso in casa sapendo che non sarebbe mai più potuto uscire”.
La scuola e l’Intifada
Nel 1988, mentre Ghassan terminava con successo la formazione scolastica obbligatoria, nelle strade e nei villaggi la tensione aveva raggiunto l’acume e si era trasformata in rivolta di tutto un popolo: la Prima Intifada. Accanto agli attacchi violenti di una parte e alla ferrea repressione dell’altra, la Prima Intifada fu per Ghassan la dimostrazione che il suo popolo era vivo e che sapeva organizzare la resistenza collettiva: nel boicottaggio dei prodotti e delle tasse israeliane, nella costituzione di comitati locali di mutuo appoggio, nella costruzione di un’alternativa efficace e presente all’occupazione. Fu però anche la dimostrazione che questa non aveva nessuna intenzione di cedere: quasi tutti i suoi compagni di scuola vennero arrestati, accusati di essere aspiranti terroristi e di aver lanciato una pietra. Uno a uno, scomparivano fra le galere delle prigioni israeliane e Ghassan sapeva che la stessa sorte sarebbe potuta toccare anche a lui. Fu proprio in quei momenti, fra la confusione dei sentimenti e le aspirazioni che si hanno da ragazzi, che pensò davvero al futuro e a quel che voleva fare della sua vita: rimanere e lottare insieme a tutti gli altri per la libertà oppure tentare la fuga e salvarsi la pelle. Fra la sera e la mattina di una notte insonne, intuì che la sua strada era nel mezzo ed era forse anche più lunga di quella che ogni giorno da bambino aveva percorso in groppa all’asino; la sua Intifada era il sogno di sempre e che ancora conserva: diventare avvocato, cercare giustizia laddove era stata perduta.
“Fu allora che i problemi cominciarono”, confessa Ghassan mentre sediamo su una panchina vicino alla tenda dove è nato, a metà strada fra un agglomerato di case palestinesi a rischio di demolizione e un insediamento di coloni israeliani. Ghassan si si iscrisse all’università nelle Filippine, pur sapendo che per raggiungerla avrebbe dovuto superare l’ostacolo della frontiera, un muro simbolico simile a quello fisico che dalla parte opposta vieta l’accesso a Israele: per scavalcarlo, chi è palestinese deve richiedere e ottenere un permesso dalle autorità occupanti. “Mi promisero che mi avrebbero concesso il visto, che avrei potuto lasciare il paese e inseguire il mio sogno. Mi dissero però che questo era un favore e che in quanto tale richiedeva un controdono: una collaborazione con i servizi segreti israeliani, un aiuto per scovare i potenziali terroristi. Riufiutai all’istante, e anche se sapevo che il sogno svaniva rapido fra le mie mani, mi sentivo forte e felice: la mia coscienza era intatta, non ero una spia.”
Costretto a rimanere in Terra Santa, poco più tardi conobbe per caso un cittadino israeliano che gli offrì un permesso e un lavoro nella consegna a domicilio delle bombole di gas: “In quegli anni imparai l’ebraico e fui quotidianamente a contatto con la società civile israliana. Al contempo, ebbi l’opportunità di scoprire le terre che fino a prima del 1948 erano state abitate dai palestinesi”. Nel 1994, in contrasto a quanto le promesse degli Accordi di Oslo conclusi l’anno prima lasciavano sperare in vista di una risoluzione del conflitto, il suo permesso di lavoro non venne rinnovato e perciò perse l’impiego e il diritto di entrare in Israele. Di nuovo, la strada si rivolgeva su se stessa e la distanza si annulava. Ma forse proprio per questo, o per un innato senso del dovere a ribadire la speranza, Ghassan ottenne la patente di taxista e ricominciò a correre fra i sentieri di quel che rimaneva della sua terra.
Dal 2002, a due anni dallo scoppio della Seconda Intifada, i suoi passeggeri sono gli internazionali e le sue fermate i diritti dell’uomo.
Se Dio vuole
Ghassan ha gli occhi dolci e il suo sguardo fiero fugge ancora lontano. Non sa cos’è la libertà, non l’ha mai conosciuta ed è certo che non verrà domani. Ma ha imparato, con gli anni, a definire l’occupazione, che a parer suo è una morte lenta: l’opposto dell’acqua, sorgente della vita. Dice però che lui e il suo popolo sono forti come gli uliveti e che per questo non saranno mai più profughi, resteranno umani e rimarranno a vivere nelle case demolite per altri mille anni ancora. “Poi si vedrà”, dice col sorriso mentre si nasconde dietro a una sigaretta. O, più precisamente: “Inch’Allah”.