DI MIGRANTI, CONTROLLO E MENZOGNE DI STATO

 

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Succede che un giorno di gennaio, nelle prime ore del mattino, da una delle diverse radio di Stato viene fatto un appello alla popolazione ticinese. Succede che chi parla alla radio racconta che quella stessa mattina, mentre si dirigeva in studio che era ancora notte, avvistava diverse persone camminare a bordo dell’autostrada, in fila indiana. La zona in questione, viene detto, è quella di Chiasso, poco distante dalla frontiera che separa Svizzera e Italia, e ciò fa supporre agli ascoltatori che con ogni probabilità le persone in fila indiana sono migranti che tentano un passaggio di fortuna per penetrare in territorio svizzero. Chi parla alla radio prosegue dicendo che nell’avvistare queste persone, faceva ciò che ogni buon cittadino avrebbe fatto: chiamare la polizia e denunciare quanto visto, affinché l’ordine fosse mantenuto e le persone immediatamente fermate. Non solo: chi parla conclude con un appello alla popolazione, invitandola a fare lo stesso e a denunciare situazioni simili. Camminare sull’autostrada è vietato, e se a farlo sono dei migranti, diventa reato.

Quanto successo alla radio in quella mattina di gennaio può sembrare poco rilevante, ma cela in realtà una logica che deve quantomeno far riflettere. Il principio che è sottinteso, infatti, è quello secondo cui il cittadino che vede o è a conoscenza di situazioni che oltrepassano il limite imposto dalla “legalità”, ha il dovere morale (e non solo) di avvertire le autorità affinché tali situazioni vengano fatte rientrare nell’ordine. Naturalmente, l’aggravante è data qui dalla natura politica che fa da sfondo all’appello e che rievoca quella che gli stessi media di Stato hanno definito come l’“emergenza migranti”.

Senza volere tracciare paragoni eccessivi e per molti aspetti fuori luogo, rimane che la logica della denuncia dei e fra i cittadini agli organi repressivi dello Stato ricorda alcuni fra gli aspetti più cupi e al contempo sensazionali di cui si sono macchiati i totalitarismi del ventesimo secolo, primo fra tutti quello messo in piedi da Stalin nell’Unione Sovietica. L’aspetto è proprio quello della denuncia e dell’autodenuncia, che negli anni del terrore sovietico arrivò a coinvolgere persone che abitavano lo stesso quartiere e addirittura condividevano le stesse abitazioni: persino fra parenti succedeva che ci si denunciasse a vicenda, o che uno fra i famigliari fosse una spia dello Stato incaricata di raccogliere tutti gli elementi che potessero servire ad accusare un altro membro della famiglia di “attività anticomunista”. Il controllo sociale non si realizzava allora (soltanto) attraverso una ferrea repressione di tipo poliziesco, ma nasceva e si sviluppava fra la popolazione stessa, consentendo allo Stato di penetrare ovunque e di creare un sistema orwelliano di sorveglianza totale fra pari. Elemento caratterizzante di ogni totalitarismo e anche principio dello Stato-nazione, il controllo sociale edificato nell’Unione Sovietica non nasceva dal nulla e non era neppure un’invezione di Stalin, bensì trovava alcune delle sue radici nel sistema carcerario europeo del XVIII secolo, in particolare in quello pensato dal filosofo inglese Jeremy Bentham. Egli progettò il cosiddetto Panopticon, una struttura carceraria costruita in modo circolare attorno a una torre centrale riservata alle guardie, le quali grazie a un particolare gioco di illuminazione potevano vedere all’interno delle celle e sorvegliare costantemente i detenuti.

Foucault, nel suo saggio Sorvegliare e punire: la nascita della prigione, sottolinea come l’invenzione di Bentham si estese presto all’intera società e grazie anche allo sviluppo tecnologico contribuì a creare il controllo sociale totale.

Se il modello del Panopticon diventa modello dell’intera società, il cittadino stesso si identifica nel ruolo di guardiano e diventa “soggetto normalizzatore”, colui che provvede a far rispettare l’ordine della società. È il principio del cittadino-poliziotto. Ne consegue, naturalmente, una ferrea disciplina militare in tutti i settori, primo fra tutti quello lavorativo, dove la sorveglianza è utilizzata in modo da garantire un aumento della produttività. La vita in fabbrica e le dinamiche di lavoro precario dei giorni nostri, del resto, altro non sono che lo sviluppo naturale di questa impostazione basata sull’annichilimento dell’individuo, sullo sfruttamento e sull’autorità.

Un sistema di controllo sociale come quello denunciato da Foucault, per funzionare, necessita poi di alcune pedine indispensabili: i devianti, coloro i quali rappresentano uno scarto rispetto alla normalità e all’ordine. Ciò appare chiaro se si analizza la funzione dell’istituzione carceraria e il trattamento riservato ai “criminali” fra XVII e XVIII secolo: in questi decenni si passa infatti da una teatraliazzazione della punizione (data principalmente dalle esecuzioni in piazza) a un tipo di violenza che consiste nell’isolare il diverso rispetto al resto della società; lasciarlo ai bordi (anche geografici) e utilizzarlo come costante minaccia rispetto all’integrità e al funzionamento della società stessa. È proprio in questo modo che lo Stato redige un contratto con il cittadino: in cambio di una certa idea di “sicurezza”, i due collaborano nell’isolare e denigrare il diverso, al fine di riprodurre l’ordine e il controllo sociale.

L’appello della radio di Stato a denunciare situazioni in cui possibili migranti sfuggono agli impedimenti alla loro libertà di movimento, è un caso esemplare che dimostra come oggi i migranti stessi vengano identificati come “devianti”, ossia il diverso che va controllato e isolato. In questo senso, gli stessi migranti vengono utilizzati dallo Stato e dai suoi apparati come una pedina indispensabile per rafforzare e riprodurre l’ordine sociale: tacciandoli come pericolose minacce alla sicurezza collettiva, lo Stato porta il cittadino a identificarsi con la legge e ad autoeleggersi paladino della giustizia. Il cittadino smette così di essere individuo pensante e al contrario è spinto a riconoscere se stesso nell’idea di regolamentazione dettata dallo Stato, anche quando questa è palesemente ingiusta e colpisce direttamente altri esseri umani.

Di fronte a una tale narrazione calata dall’alto e costruita attorno a una mistificazione totale della realtà, il vero compito di ogni individuo è quello di denunciare la menzogna di Stato e rispondere al controllo sociale con la solidarietà. Rifiutare e combattere le ingiustizie perpetrate contro “il diverso” significa anche liberare se stessi dal ruolo predefinito di cittadino-soldato al servizio del potere; significa altresì rivendicare una società che aborri il mito della frontiera e il principio della segregazione sociale.

Bibliografia indicativa:

M. Foucault: Surveiller et Punir. Naissance de la prison, Gallimard, 1975

M. Lianos: Le nouveau contrôle social, L’Harmattan, 2001

V. Voisin: La dénonciation dans l’URSS stalinienne. De l’entre-deux-guerres à la Seconde Guerre mondiale, in: “Hypothèses”, 1/2009 (12), p. 151-159.