DA DOVE VENIAMO

In carcere

I panni sono stesi uno accanto all’altro in colonne ordinate. Disegnano figure irregolari dai colori accesi, sembrano manichini addormentati. Fuori, nel cortile all’aria aperta, una donna li sfiora leggera e si confonde fra loro, scompare ma solo per un istante. È disinvolta, abituata.

Alcune note musicali sfuggono le ferriate del cancello e si disperdono nell’aria della sala accanto, dove le guardie non si curano di afferrarle. Un rock orecchiabile, di una voce in vivo piacevole e malinconica che ripete le stesse strofe in un inglese tanto stentato quanto sognato; sono bellissime.

Là fuori, nella campagna di Zacapa, c’è solo una strada asfaltata e qualche animale lasciato libero di pascolare: un asino, una mucca molto magra e dei cani randagi in cerca di cibo. I microbus che corrono sulla strada asfaltata assomigliano ai Volkswagen anni ’70 allegri e colorati. Questi, però, sono monocolore e non dicono la destinazione; a ciò provvede la grande croce bianca impressa con pittura fiacca sul vetro anteriore. Quando arrivano al capolinea non tardano più del necessario: scaricano i pochi passeggeri di fronte al grande cancello grigio, raccolgono le monete e tornano da dove sono venuti. Accanto al cancello grigio, un piccolo negozio di alimentari offre due tavoli all’ombra e un bagno pubblico. Sopra il cancello, invece, rotoli di filo spinato e la scritta Los Jocotes – Centro de Detención Administrativa de Máxima Seguridad.

Dall’altra parte si apre un’area chiusa e riservata a un pubblico speciale: guardie in nero con scarponi berretto e fucile e prigionieri in canottiera, ciabatte e tatuaggi. Fra gli stabili uguali dei dormitori e della mensa, anche un reparto femminile, con i panni stesi, i colori e la donna che vi si confonde.

Le guardie presiedono l’entrata, la zona verde all’esterno e gli uffici in cui si sbrigano le faccende ufficiali, le due chiese in cui succede di officiare matrimoni e parte del salone da cui il mattino si liberano le note musicali; il resto è lasciato nelle mani di chi ha più denaro e potere fra i detenuti, alla corruzione, alla violenza e alla crescita in verticale della società carceraria. I narcos, i mafiosi e i pezzi illustri della criminalità organizzata decidono la quota che ognuno dei circa ottocento prigionieri deve versare al momento dell’ingresso; stabiliscono chi dorme dove, chi mangia cosa e chi può accedere all’acqua pulita. I loro padroni, naturalmente, stanno altrove, ma i contatti persistono. In prigione, da prigionieri, per lo più sono i poveri, i delinquenti di strada, i migranti falliti, i drogati, gli assassini e qualche stupratore. E poi ci sono i contadini e i prigionieri politici.

La pioggia

Maira si sveglia presto il mattino, quando sorge il sole e a volte prima. Ci sono tanti lavori da fare: le galline e le capre, il mais e le tortillas, la casa e i bambini. E il bucato, i panni stesi uno accanto all’altro in colonne ordinate. La vita contadina è abitudine e molto altro: questione identitaria, di tradizioni, relazioni e ruoli, ritmi, feste e i riti. Un lucchetto simbolico per una comunità ancestrale.

Fa caldo al confine fra il Guatemala e l’Honduras. Per due anni non ha piovuto e l’agricoltura stenta a riprendersi. Quest’anno, però, di acqua non ne è mancata, tanto che le piogge hanno smosso il terreno secco e verticale della comunità di Corozal Arriba: da Corozal alta il fango è sceso lungo la strada proprio come fanno i bambini per andare a scuola, e ci è mancato poco che investisse la stessa. Ma si è fermato prima, per fortuna, e i danni sono stati contenuti. O nulli, a giudicare dall’esterno, perché se da lontano si guardano le alte colline è impossibile pensare che fra quegli alberi fitti vi siano persone che le abitano; tanto meno un popolo intero.

Si suda al confine fra il Guatemala e l’Honduras, di un caldo umido anche quando non piove. Nel mezzo della vegetazione tropicale, fra le comunità dei popoli indigeni, sorge una zona naturale che è riserva idrica, un diamante africano messo lì a stuzzicare l’interesse di imprese e latifondisti, gente d’affari con l’olfatto fino e l’occhio abituato a vedere il grigio dell’argento sopra il verde delle foglie. Così, nel tempo e col tempo, il terreno è stato tastato, misurato, occupato, e ora si prepara ad accogliere camion pesanti e trattori aggressivi, trivelle, motori e muri sotterranei: un’idroelettrica e la dislocazione forzata di svariate comunità contadine.

C’è traffico al confine fra il Guatemala e l’Honduras: di persone e migranti, di merci e di accordi, di droga e armi. In orizzontale, verso il Messico e gli Stati Uniti, e in verticale, come linea pesante che agganci il Pacifico all’Atlantico. Da fare col ferro e le rotaie, un treno ad alta velocità.

Ha piovuto forte a Corozal Arriba, e il terreno si è staccato, è sceso ma non ha toccato la scuola. Per fortuna. Nemmeno ha toccato il latifondo della famiglia proprietaria Wilma Chew Casasola, che dà lavoro ai contadini che insieme alle famiglie abitano la stessa terra. Da secoli e secoli, ancora prima di lei e dell’invasione. Il contratto, però, non tiene conto del tempo e della memoria, e l’inchiostro è quello della minaccia: nessuna sovranità alimentaria, accettare lo sfruttamento, rispettare il padrone oppure morire, andarsene, cercare lavoro in altre terre confiscate al popolo nascosto fra le colline. La giustizia, la legge, lo stesso Registro Generale della Proprietà parlano chiaro: chi possiede i titoli decide, e fra un indigeno e un padrone non sarà mai lo stesso.

Il popolo Maya Ch’Orti’ non esiste. Lo ha stabilito la corona spagnola all’arrivo, lo ha messo in atto con ogni mezzo necessario: la spada, la guerra e la menzogna. La divisione. Nel tempo e col tempo, la corona si è presa tutto, la terra la lingua la cosmogonia, restituendo altrettanto, padroni e governatori, ladri e schiavi, encomiendas e frontiere, spagnolo e chiese. Questione di un patto scritto con l’inchiostro rosso: assimilazione o sangue. L’oligarchia e i soldati del Guatemala sovrano ci hanno pensato più tardi a farla finita, e i suoi partiti ancora oggi si ostinano a dire che “non ci fu genocidio alcuno”. Ma la memoria, nel tempo, ha vissuto anche di peggio, e oggi è ancora viva.

Maira è cattolica e non parla ch’orti’; nessun altro del suo popolo, né da una parte né dall’altra della frontiera con l’Honduras, conosce più di qualche parola o espressione sopravvissute all’etnocidio. Da quando suo marito è stato ucciso, il logorio dei giorni segna il pianto della lontananza: di lui serba ancora pochi vestiti usurati da contadino, che a volte appende accanto ai panni per far sembrare che stia solo dormendo; e vi si confonde, scomparendo un attimo.

Terra

All’anagrafe, un pezzo del popolo Maya Ch’Orti’ è nato quattro anni fa, quando nel caldo umido di inizio giugno 2013 il Consiglio municipale della città di La Union riconobbe Corozal Arriba in quanto comunità indigena.

Uno scherzo, un sarcasmo amaro, l’anagrafe: un pezzo di carta nuovo nel registro ufficiale per un popolo ancestrale vivo da millenni. Quanto a lui, il riconoscimento è una parte senza il tutto: come strappare un arto a un un unico corpo aggrappato a se stesso, come spezzare una famiglia. Ma lo dice il nome – Corozal Arriba -, e forse è destino che anche le altre quarantotto comunità – il resto del corpo – seguano l’esempio, finché l’anagrafe dovrà inchinarsi alla matrice identitaria.

Tracciato un sentiero, aperto un cammino, ha inizio la marcia della memoria, per quanto silenziosa: prosegue, nei vicoli angusti della giustizia di Stato e nei cavilli legali delle sue interpretazioni, a rivelare radure di luce, spazi di libertà. Il diritto, così come dovrebbe essere. Con le spalle al muro, a colloquio con le sue incoerenze, la giustizia stessa non può più tacere: il popolo, se è indigeno, ha diritto alla terra; è sua.

Agosto 2013, le autorità ancestrali della comunità di Corozal Arriba ricevono i titoli delle terre in cui vivono; e li ridistribuiscono. È una vittoria, un successo vero, risultato di un processo storico e legale durato anni.

Ma il prezzo è caro, perché quando la giustizia smette di proteggere chi l’ha creata e poi modellata a immagine dei suoi interessi, si muovono i poteri, e lo fanno così come lo hanno sempre fatto.

Il 6 giugno 2013, a meno di una settimana dalla firma del riconoscimento di Corozal Arriba in quanto comunità indigena, la proprietaria Wilma Chew Casasola fiuta il pericolo e manda un messaggio: cinque uomini entrano armati fra le case di Corozal. Fa ancora luce ma poco importa, perché ai loro occhi il bersaglio è uno: indigeno e contadino. Vedono un uomo, sparano. Accanto, un altro: muore anche lui. A pochi metri, si muove un terzo: aprono il fuoco, perché pure lui è indigeno e contadino, membro della stessa comunità. Cade a terra ma respira ancora, almeno fino a quando Veronica, insieme a sua figlia Angelica, trovandosi nei paraggi e sentendo gli spari, decide di avvicinarsi. Però non sopravvive. Si chiama David, è il marito di Maira.

I cinque, eseguito il compito, si disperdono fra gli alberi. Ma i colpi hanno chiamato l’attenzione vigile dei contadini, che sono accorsi e conoscono bene il territorio. Finisce peggio di come era iniziata: gli infiltrati feriscono altre due persone ma uno di loro rimane ucciso, con due segni sul corpo: un’arma bianca e una da fuoco.

Moltitudini

Maira è vedova, ma non è la sola. A terra, insieme a suo marito, sono rimasti altri tre uomini, di cui due contadini, mariti, padri di famiglia. Nella comunità ci sono altre due vedove: Miriam e Juana. Non è l’unica vedova, Maira, ma si sente sola perché ha perso l’uomo che amava: come se un anello si fosse staccato, come se qualcuno le avesse amputato una parte del corpo. Ma deve ricostruire, lo sa, cercare la continuità. Deve crescere i suoi figli.

Il popolo Maya Ch’Orti’ vive fra il Guatemala e l’Honduras, dove fa caldo e si suda. Sull’altopiano vicino alla frontiera con il Messico vivono i Maya K’Iche’, mentre più nord a sopra la città di Nebaj i Maya Ixil, che più degli altri hanno sofferto i massacri ordinati da Rios Montt, il generale. I Ch’Orti’ non sono i soli in Guatemala: oltre a loro ci sono altri ventun gruppi etnici Maya, popoli indigeni ancestrali: nel tempo e col tempo, nel costante contatto con l’Altro, alcuni più e alcuni meno hanno mantenuto le strutture e gli idiomi, le pratiche, i culti e le credenze. E poi ci sono gli Xinca, che non sono Maya, e gli afro-discendenti, anche loro figli di uomini liberi che furono fatti schiavi.

La giustizia, in Guatemala, non è una sola. I popoli indigeni hanno la propria, che è specifica al gruppo etnico e che da secoli regola la gestione del vivere insieme. Come tutte le altre, è espressione quasi artistica di un insieme di valori, un modo di vedere le cose. Ha i suoi rappresentanti, i suoi legislatori e gli esecutori, e si confronta ogni giorno con svariate questioni. Per lo più violenza famigliare, delimitazioni territoriali e accesso ai beni di consumo di base. Le donne, secondo gli studi e le statistiche, sono quelle che più se ne avvalgono.

La giustizia indigena funziona da sempre, ma non è la sola. Anzi, ufficialmente non esiste. È quanto afferma la giustizia di Stato, secondo cui la coesistenza fra sistemi giuridici diversi potrebbe generare confusione. Nel dubbio, meglio scegliere un sistema unico di valori uguali, un solo modo di vedere le cose e di aggiustarle. In senso artistico, perché nemmeno la giustizia di Stato è una e basta: un corpo, di natura giuridica, ma con tanti volti a seconda del dove, del quando e del chi, e se questo è padrone oppure contadino, indigeno e comunista, non sarà mai lo stesso. Lo dice la storia, la povertà e l’esclusione. Lo assicura il guardiano, scarponi neri e berretto azzurro, il narcotrafficante, ciabatte e tatuaggi, e il cancello grigio col filo spinato. Lo impone il progresso, tempo che scorre diritto su ferro e rotaie.

La Giustizia

I giorni passano, e anche i mesi: pacifici e irrequieti. Maira ci prova, ad andare avanti, a fare come era prima; anche fra i panni stesi in fila e le notti insonni. Ma qualcuno è arrivato, da fuori; era armato, ha ucciso. Niente è come prima. Qualcosa è cambiato anche nei segni invisibili dei soliti incontri, nella monotonia del vivere insieme ogni giorno. Qualcuno, là fuori, vorrebbe spazzare via tutto, vorrebbe la rassegnazione. Come se il passato fosse storia finita, buona solo da raccontare.

Ma non è sola, Maira, non lo è mai stata: parabola singola incastrata nel solco del tempo, in un passato comune; sentiero sterrato che prosegue in direzione ciclica. È la cosmogonia ancestrale della continuità che ritorna, malgrado l’invasione, malgrado le rotaie, le chiese e la corona. E nel frattempo, il lavorio silenzioso e incessante della memoria arresta l’oblio: vuole giustizia, Maira, e così vogliono le altre due vedove che hanno subito la stessa sorte. Vuole giustizia la comunità intera, che rivendica la sua identità, i suoi diritti e ribadisce che la terra è sua; lo è sempre stata. Wilma Chew Casasola, latifondista, vuole invece che le cose smettano di cambiare, e perciò continua a muoversi. Minacce di morte contro le autorità indigene di Corozal Ariba in proiettili e messaggi scritti nell’atrio dalle case, soldi e promesse per alcuni contadini, pressione sugli organi di dovere perché procedano come hanno sempre fatto. È forte e astuta, la proprietaria terriera, e mentre Maira e gli altri stanno ancora aspettando, il Ministero Pubblico ha già aperto le indagini. Ma a senso unico, come la giustizia di Stato. Perché quel giorno di giugno ha lasciato un morto, non ci sono prove concrete ma è certo che qualcuno ha sparato e qualcuno ha picchiato, con l’accetta, l’arma bianca dei contadini.

Ora il caso è pronto e può essere montato, fra acrobazie e intuizioni artistiche. Ne esce una cosa grande, sporca, che cambia la vita a molte famiglie e la reputazione di tutta una popolazione: diciassette mandati di cattura per l’assassinato dell’intruso Harrison Zuñiga, dipendente ufficiale della proprietaria Wilma Chew Casasola. Diciassette mandati di cattura, anche se nessuno, nella comunità, sa con certezza se la spada di Damocle pende sul suo capo o su quello del vicino di casa: un modo di dire che chiunque è colpevole, lì dentro. Una sentenza spietata che dice di un linciaggio comune, ad opera di persone più bestie che umane, avvoltoi sopra un corpo inerme e indifeso. Niente di sorprendente – suggerisce la sentenza – è la reputazione delle comunità del bosco che si conferma da capo, è il loro attuare dai tempi che furono. Assassini, terroristi tutti – dichiara la sentenza – e chi li ha riconosciuti ufficialmente in quanto popolo indigeno ha commesso un errore. Il Convenio 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIT) è un errore, di tipo strutturale, nel concedersi a loro come possibilità legale. O forse no – corregge la sentenza – il riconoscimento è giusto, ma manca qualcosa: una congiunzione e un epiteto. Andava chiarito, messo nero su bianco.

Il tempo passa e i mesi cominciano a diventare anni. La criminalizzazione cresce e assume veste giudiziaria, si svuota di tutto il resto. Non si tratta di diritti, né di terra o identità, non esiste giustificazione alcuna: è omicidio, premeditato e gratuito. Questo il messaggio perspicuo.

Cresce al contempo il timore fra i diciassette e tutti gli altri; a Corozal Arriba si aspetta preoccupati che arrivi all’improvviso la giustizia: per assassinato, la legge prevede trent’anni.

Così le cose smettono di cambiare: chi teme il mandato di cattura non esce dal recinto, i pochi rimasti tacciono e nelle comunità circostanti il messaggio è ben recepito. La lotta si arresta, nel limbo del dubbio e dell’incertezza, mentre la giustizia celebra se stessa e l’obiettivo è raggiunto. Anche senza il cancello grigio e il filo spinato, anche senza il guardiano con gli scarponi neri.

I vivi e i morti

Maira è contadina, disinvolta e abituata. Ad accettare la pioggia o la siccità, il raccolto e il lavoro da sbrigare, la qualità del mais. Quello che non può controllare, se non con la preghiera, e che viene dall’alto o dalla terra. Ma è anche donna, cosciente e libera, nonostante tutto. E vuole giustizia, Maira; così decide di muoversi, smette di aspettare. Parla con gli altri – con le altre – e organizza un viaggio: un’ora a piedi, giù dalla strada del fango e dei bambini che vanno a scuola, poi una jeep senza tetto, molte curve e passaggi inclinati, fino a Camotán, il primo nucleo di case in cemento che assomiglia a un centro urbano. Da lì il microbus monocolore, come quelli Volkswagen, con marcata la destinazione e senza croce bianca in pittura fiacca: Zacapa, all’ufficio del Ministero Pubblico. Entra sicura, seguita da Miriam e Juana, le altre vedove con l’abito lungo e colorato, il traje tipico delle donne indigene. Aspettano a lungo nella sala d’attesa, ma alla fine possono accedere; alla sala della giustizia. Ad accoglierle, in giacca nera e cravatta azzurra, il procuratore pubblico. Ha l’aria seria e gentile.

Le donne vanno diritte al punto: quel giorno, il 6 giugno del 2013, non ci fu solo un morto, ma quattro. I loro mariti, padri dei loro figli. Vogliono giustizia, la pretendono. Parla l’avvocato, ora, che nel frattempo ha raggiunto le donne nella sala. È una persona di fiducia, si occupa di questioni di terra e offre supporto a Comundich, un’organizzazione che da anni accompagna la lotta del popolo Maya Ch’Orti’. Chiede dell’investigazione per il caso dei tre contadini uccisi, vuole vedere i documenti: non può essere difficile capire chi è entrato e ha sparato quel giorno. Il procuratore pubblico risponde pacato e tranquillo, con aria gentile. Dice che dovranno aspettare, ma che senz’altro vedranno i documenti, come è giusto che sia. Sarà lui in persona, promette, a farsi vivo.

Passano i giorni, e anche i mesi: sono quasi tre anni da quel giorno di giugno. Nessuno si fa vivo, e il sospetto cresce: che non ci sia investigazione alcuna, che non ci sia interesse. Che i morti non esistono per chi nemmeno riconosce i vivi. Fosse anche un popolo intero. Fosse anche un genocidio.

L’avvocato torna a Zacapa, nella sala del Ministero Pubblico. Per saperne di più. La risposta è secca e concisa, quasi sbrigativa: il caso ha traslocato, passato nelle mani di un’altra Procura, in un altra città. Gualán, più a Nord. Lì, in una sala di giustizia uguale, il sospetto diventa realtà. Harrison Zuñiga, il morto, l’intruso, fu in vita anche omicida. Pluriomicia. Uccise lui i tre contadini, e ferì lui gli altri due. Non c’è nessun altro. Il caso è chiuso.

Nella bocca del potere

Maira non ci sta. C’è Veronica e sua figlia Angelica, che hanno visto; ci sono gli altri contadini, che hanno rincorso i cinque infiltrati. Non è stato solo il morto a sparare: è l’ennesima ingiustizia, l’impunità di sempre.

Anche l’avvocato non ci sta, e riesce a far riaprire il caso. Soprattutto, riesce a ottenere i risultati ufficiali del reperto balistico. E questo parla chiaro: non una ma varie armi spararono e uccisero in quel giorno di giugno. È l’ennesima dimostrazione.

La giustizia, con le spalle al muro a colloquio con se stessa, non può più tacere ed emette mandati di cattura per gli assassini dei contadini.

Tracciato il sentiero, aperto il cammino, ricomincia la marcia verso la giustizia in maiuscolo, la terra, l’identità. Maira organizza un altro viaggio, di nuovo con Miriam e Juana. C’è anche Ignacio con loro, contadino quasi anziano della stessa comunità. Vanno a Gualán, al Ministero Pubblico, ma questa volta non chiedono nulla. Questa volta denunciano, ufficialmente: la Procuratrice Pubblica che chiuse le indagini per la morte dei mariti. Sembra uno scherzo, di un’ironia ingenua: tre donne, vedove e indigene, a incriminare il potere proprio lì nella sua tana. Eppure succede.

Anche nelle comunità circostanti si riceve il messaggio, e nuovi esiti provano che la direzione è corretta: inizio 2016, la Corte Costituzionale – la più alta istituzione giuridica del Paese – riconosce ufficialmente le comunità Maya Ch’Orti’ di Tachoche e Tizamarté in quanto indigene, aprendo di fatto i cancelli del Registro Generale della Proprietà per la restituzione della terra. Nonostante le minacce e le rappresaglie, nonostante tutto il resto: è la marcia della memoria, silenziosa e inarrestabile.

Giuramenti

Quando non sa più cosa inventarsi, la storia si ripete. Non per cosmogonia ciclica né per uno scherzo del destino: la storia si ripete quando a orchestrarla sono i poteri forti, quelli noti a tutti. Quelli che quando si muovono, lo fanno così come hanno sempre fatto.

Fra aprile e maggio 2017 si scatena la vendetta: tre indigeni, contadini, mariti e padri di Corozal Arriba, scoprono che la spada pendeva sul loro capo. Vengono arrestati uno dopo l’altro in un’incursione della polizia nazionale nella comunità. È mattino presto e la luce penetra obliqua fra gli alberi, ma poco importa, perché gli uomini in divisa conoscono bene il bersaglio. Il primo è Ignacio, colpevole di aver accompagnato le donne a denunciare il potere. Il secondo è José, sindaco di Corozal Arriba e il terzo è Melvin, tesoriere della comunità. Sono autorità ancestrali. Dichiarano – giurano – che quel giorno di giugno erano impegnati altrove, ma poco importa: sono rappresentanti della giustizia indigena. Quella diversa, dai valori strani, che fino a prova contraria non esiste e che nel dubbio va controllata da vicino: con una guardia e i suoi scarponi, con un cancello e le sue spine, con dei mafiosi tatuati.

Due mesi più tardi entra Isaac e poi in luglio Miguel: come a ribadire che tutti sono colpevoli, che Harrison Zuñiga l’hanno ucciso tutti insieme: con la pistola e l’arma bianca. Come a ricordare – giurare – che domani toccherà a un altro.

Il cammino

Le mani sono stese una accanto all’altra, appoggiate sul tavolo. Le unghie lunghe e pulite non celano più pezzetti di terra. Rimangono le rughe a testimonianza del prima, linee asimmetriche incastrate nel corpo. Il solco del tempo e delle generazioni.

I contadini – prigionieri politici – siedono uno accanto all’altro. Parlano poco, e quando lo fanno è quasi sottovoce. Fra l’andare e il venire del furgone Volkswagen, croce bianca e nessuna destinazione. Fra una nota e l’altra della musica rock, le sue strofe bellissime e tristi.

Mercoledì 27 settembre è un giorno qualunque, ma ora è importante: c’è l’udienza. Potrebbero essere trent’anni.

L’avvocato dice che la controparte non ha le prove, che non può essere. Che c’è ancora qualche spazio aperto fra i vicoli angusti della giustizia di Stato. Ma sa bene – lo sanno tutti – che fra un padrone e un indigeno non sarà mai lo stesso.

L’avvocato, le comunità e chi le accompagna sono d’accordo: bisogna difendersi. Aiutare Ignacio, Melvin, José, Isaac, Miguel. I dodici nascosti in casa. Bisogna difenderli, dimostrarne l’innocenza e lavare il sangue sporco versato su Corozal Arriba. E altrove. Perché non fu un linciaggio collettivo, non possono essere stati tutti. Lo dice anche il corpo e le due ferite: un’arma da fuoco e un’arma bianca.

E poi c’è Maira, c’è Miriam e c’è Juana. Che sono scese dalle colline e hanno camminato diritto fino alla bocca del potere. Anche se sembra uno scherzo, una barzelletta, un’ironia ingenua. Hanno tracciato il sentiero e la marcia, adesso, non è più silenziosa. Ci sono i popoli e la terra, i morti, la storia e la memoria.

Mercoledì 27 settembre, a processo – sul tavolo – la difesa cambierà le carte: denuncerà l’ingiustizia e la prigione, l’impunità. L’occupazione e la guerra, i massacri. E porterà Catalino, Juan e David, i contadini uccisi. Per rivendicare, ancora una volta e senza chiedere il permesso, la terra e tutto il resto.

E se qualcuno, fra cinquecento anni o un po’ di più, chiederà a Ignacio, a Melvin, a José, a Isaac o a Miguel dove andranno dopo, loro alzeranno la mano e indicheranno col dito il cammino; risponderanno a modo loro e ancora sottovoce: “lassù, da dove veniamo”.

Tullio Togni

* Essendo il Processo ancora in corso, per ragioni di sicurezza i nomi delle donne sono stati modificati. I fatti e i nomi delle altre persone, istituzioni e imprese, sono invece reali.