IMPATTI: LETTERA A UNA PRIGIONIERA POLITICA

 

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«Ce l’eravamo detti fin da subito, sapevamo che sarebbe potuto succedere. O lui o io, era il prezzo da pagare per questa lotta giusta. Ce l’eravamo promesso, all’inizio di tutta questa storia: chi dei due sarebbe rimasto avrebbe dato una mano a quelli che l’altro lasciava indietro. È successo a tuo padre, mi dispiace.»

Rodi lo dice quasi come fosse una frase di circostanza, l’ha masticata da tempo e ora che l’ha sputata sente ancora in bocca il cattivo gusto. Doveva farlo da un po’, ma ha saputo decidersi soltanto adesso che anche doña Maria l’ha stroncata un tumore. Lo aiuta, a scacciare la colpa e peggio ancora il sollievo, il saccone di mais che a fatica fa scivolare sul baule del fuoristrada un po’ ammaccato. Lo raccoglie con un grugnito e poi con un colpo di bacino lo consegna a Miguel, sedici anni appena. Insieme al riso e ai fagioli, gli servirà a tirare avanti ora che sua sorella Julia, quindici anni, è andata a vivere col marito. Rimangono i fratelli ancora piccoli oltre alla nonna che ha perso la vista. Rimane anche la casa, i mattoni di fango secco: da aggiustare prima che arrivino la piogge.

Un attimo di silenzio che dura il tempo di un rimpianto, poi Rodi dà una pacca a Miguel sulla spalla magra e lascia che la sua manona gli accarezzi affettuosa i capelli neri, il collo magro e puerile. È lì che hanno sparato a suo padre, appena qualche mese fa; il sicario deve averlo fatto senza nemmeno guardarlo in faccia, l’impatto è stato tremendo. Rodi lascia cadere lo sguardo cupo, promette che tornerà presto e gli raccomanda di essere forte; poi sistema la pistola sul cruscotto e accende il motore.

Scendendo, lungo la strada sterrata che sembra non finire mai, d’un tratto guarda lo specchietto e vede la polvere secca alzarsi e farsi immobile nell’aria. Attorno, inghiottiti dalla selva folta del sud est del Guatemala, i contadini invisibili continuano a lavorare le terre degli altri in cambio di poco o niente, o al massimo di una pallottola a tradimento se provano a dire che non ci stanno e a scacciare i padroni. A Rodi non capita quasi mai, ma per un attimo si sente come chi non può nulla di fronte al male del mondo: “In questo paese di merda non cambierà mai niente!” pensa mentre distoglie lo sguardo, strattona il cambio e spinge forte la frizione. Eppure, fin dall’inizio di questa storia, dai tempi di quella promessa, nessun contadino l’ha mai accusato di averli trascinati in una guerra persa in partenza. Nemmeno Miguel, a sedici anni.

La prima sbarra, Susanna, te l’hanno costruita prima ancora che ti spingessero in galera. Sono arrivati il mattino presto come fanno di solito, per non essere visti; hanno lasciato gli automezzi davanti al palazzo insieme alla nebbia e alle foglie bagnate dall’autunno. Non li hai sentiti salire le scale – sono addestrati – hanno suonato il campanello con quel fare cattivo e sono entrati senza aspettare. La prima sbarra, Susanna, è stata l’impatto del proiettile che ti ha strappata dal sonno, quando hanno gridato «Alzati! Adesso! Vieni con noi!» La loro vendetta. Poi le manette, il viaggio sul blindato di fianco a loro senza volto, le prime domande e la consegna degli abiti nuovi: un rito di passaggio, una punizione collettiva per richiamarci all’ordine. Un tutt’uno, la prima sbarra.

L’avvocato esce dalla stanza dopo appena mezz’ora. La luce di aprile entra dalla finestra e col fumo delle sigarette ancora accese dipinge figure oniriche sul muro giallastro. Si dirige alla macchinetta del caffè in fondo al corridoio, inserisce due shekel e nell’attesa sistema gli incarti. La incontra nell’atrio comune.

«C’è una possibilità, una proposta, per così dire…» spiega a Nasira cercando di semplificare il più possibile. «Se lo ammettono, se riconoscono di aver tirato quei sassi…», lo sa bene che non l’hanno fatto, ma il suo tono di voce calante conferma che questo non ha più importanza. «Gli daranno otto anni anziché dieci. A tutti e cinque, stessa condanna e stessa pena.» L’avvocato lascia passare qualche secondo, poi conclude: «È una possibilità, forse l’unica. Dopotutto c’è di mezzo anche un morto.» Nasira lascia che l’avvocato finisca di parlare, poi abbassa lo sguardo. “Fra otto anni”, pensa, “il mio bambino non mi riconoscerà nemmeno più.” Ma non vuole che veda gli occhi umidi, l’avvocato, le lacrime pronte a scendere sul viso; così risponde subito: «Parlerò con gli altri, questa decisione dobbiamo prenderla insieme. Sono innocenti.» «Va bene.» risponde risponde secco l’avvocato, se lo aspettava. «Però fatelo in fretta. Il procuratore vuole saperlo tre giorni prima dell’udienza.»

Nasira ha preparato il caffè. Sul tavolo ci sono anche i datteri e l’olio d’oliva per intingere il pane. Il resto lo hanno portato le mamme degli altri quattro. L’avvocato arriva puntuale: si siede al tavolo senza togliersi le scarpe, si accende una sigaretta. La prima. Inizia a parlare, riassume i fatti; probabilmente è così che è solito fare. «Sono accusati di omicidio» stringe secco e rievoca il giorno in cui per l’accusa, dalla collina dietro il villaggio, qualcuno lanciò dei sassi sulla Road 5, la strada dei coloni: un’auto si schiantò contro un camion fermo a destra, ci fu anche un morto. «Se fanno come dicono loro, se lo ammettono» l’avvocato parla come se agli altri il quadro non fosse ancora del tutto chiaro. «Insomma, è un modo per uscirne prima. Poco importa tutto il resto, vi ricordo che hanno chiesto 12 anni, ne rischiano almeno 10! E solo perché avevano 13 anni, se fossero stati appena un po’ più grandi…» Il suo gesticolare viene interrotto da Nasira, che stende il braccio e apre la mano. Come a scusarsi, gli dice che non serve continuare, che la decisione l’hanno presa tutti insieme: «Sono innocenti.» aggiunge Tarfah, il papà di Ahmed, mentre con lo sguardo cerca una complicità che non arriva. L’avvocato rimane in silenzio.

È martedì, il sole scalda la corte militare di Salem e il suo grigiore lucido riflette i raggi come fosse uno specchio o una lente d’ingrandimento. I cinque indossano un vestito marrone e hanno i piedi legati a una catena, siedono l’uno accanto all’altro nella gabbia di plexiglas. Sembra che ci siano abituati a stare lì dentro, sicuramente nei due anni di galera preventiva hanno visto cose ben peggiori. Della proposta non sanno nulla, non c’è stato tempo e forse è meglio così.

Quando il giudice emette la sentenza lo fa come se nulla – o quasi – esulasse dal normale, la voce pacata e irremovibile non tradisce emozioni né un tono di vendetta: piatta, fredda, sterile come quella di chi è lontano, mentre ordina il da farsi. Però Nasira, come tutti gli altri nella parte opposta dell’aula, a stento regge l’urto dell’impatto: quindici anni.

La seconda sbarra, Susanna, non l’ha ordinata il giudice: esiste da prima. Vogliono che tu la veda, quando sei lì, ma poi fingono – ci credono davvero – che sia parte dell’ovvio e del buon senso. Succede nell’isolamento, di solito, lasciano che sia il nulla a esercitare la pressione: leggera, certo, ma via via più asfissiante, fino a toglierti il respiro. Ti rovesciano addosso il loro mondo, il marchio, le categorie: ti dicono chi sei, lì dentro, il tuo numero e il tuo margine d’azione. Fissano le regole del gioco, ti costringono a giocare, si arrabbiano se non giochi: ti obbligano a vincere e a perdere. Forse è l’unica possibilità.

Poi c’è la terza sbarra, Susanna, che incontra la seconda: diranno che l’hanno fatta loro, lo ripeteranno, risponderanno sempre allo stesso modo. Violenti e goffi. Ma la terza sbarra è quella che hai scelto tu, Susanna: l’hai fatto prima, durante e dopo; dentro e fuori. È quella che più li fa infuriare, perché non la controllano: nemmeno i chiodi e i loro colpi riescono a fissarla. L’hai scelta tu la terza sbarra, Susanna, a quel giro di boa: quando hai deciso di non chinarti.

38 anni: Hassana è ancora giovane e lo dimostra il suo volto senza rughe. Eppure i ripetuti soggiorni nelle carceri marocchine dovrebbero dire altro, dovrebbero mostrare sulla pelle i pestaggi ricevuti, gli insulti e le minacce. Come tatuaggi o cicatrici. Dovrebbero dire delle torture con l’elettricità subite in quei giorni in cui spariva dal mondo prima di tornare davanti a un giudice. 38 anni e cinque lingue imparate da solo: il francese, lo spagnolo e l’inglese, l’arabo e infine l’hassanya, la sua e di tutti gli altri sahrawi. Solo parlando a voce alta, dice, può stuzzicare l’attenzione del mondo. Anche se il Regno del Marocco, con l’occupazione militare che ha imposto a tutti, la voce l’ha fatta più grossa ancora e adesso detta il silenzio; se necessario, poi, c’è il frastuono delle bombe al napalm e al fosforo bianco, come nel ‘75.

Hassana non ha un lavoro, né un soldo né una casa: ha 38 anni e se vuole bere un caffè con gli amici, oppure andare dal barbiere, deve pensarci prima: deve chiedere 10 dhiram, o 20 dhiram, alla mamma anziana. 38 anni. E una famiglia, come potrebbe in questa situazione? Chissà di cosa vive, Hassana, se non di rabbia e rancore. Eppure non è questo: è un’altra cosa ancora quella che lo ha portato lì, da dove non si torna più indietro.

«Avrei molte possibilità di chiedere l’asilo politico in Europa. Ma è come se fosse il mio ruolo, una responsabilità che mi devo prendere. Ho già raggiunto il punto di non ritorno in tutto questo, voglio continuare su questo cammino.»

Quarantesei anni di occupazione. Hassana ha scelto di restare.

Cara Susanna*,

spero che lì dentro ti arrivi qualcosa di quanto esiste fuori, anche solo l’eco degli schiamazzi di persone in lontananza, le ali di un insetto o il rimbombo dei motori e del traffico; magari c’è una strada lì vicino. Qualcosa da osservare attentamente, da spenderci le ore: le sbarre alla finestra sono reali solo per chi le ordina, per chi le eleva e per chi si ostina a ribadirle.

Qualcosa che si muova inarrestabile: come il vento, l’acqua o le pagine dei libri. O la rivoluzione.

Ti abbraccio forte, a presto.

Là fuori tutto funziona per conto suo

giorno e notte.

Corpi sopravvissuti alla loro ombra

segnano il limite di qualcosa che non so.

Un camion passa

sollevando un foglio di giornale sull’asfalto,

subito mi accorgo

che ogni forma di indugio è fuori posto.

Da una finestra un uomo mi osserva,

ha una maglietta a righe.

Sono io. Siamo noi.

Vita ai margini di un movimento generale.

Corrado Benigni

* Nome di fantasia.