SAHARA OCCIDENTALE: I PARADOSSI DELL’AZIONE UMANITARIA

 

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Indice

Introduzione …..…………………………………………………………………………………p. 2

Storia del Sahara Occidentale e situazione attuale …………………………………………… p. 3

Un’interpretazione della situazione attuale …………………………………………………… p. 5

Una serie di contraddizioni ……………………………………………………………………………… p. 6

Accordi commerciali e interessi globali ……………………………………………………………… p. 7

Conseguenze dell’occupazione sull’identità sahrawi ……………………………………………….. p. 8

Geopolitica e colonialismo moderno …………………………………………………………………… p. 9

 

I campi profughi e gli aiuti umanitari …………………………………………………………. p. 12

La Repubblica Araba Democratica Sahrawi……………………………………………….…… p. 12

La popolazione nei campi profughi sahrawi ………………………………………………………. p. 13

La gestione della vita pubblica nel campi profughi sahrawi …………………………………………. p. 14

Le contraddizioni degli aiuti umanitari ……………………………………………………..…. p. 15

L’aiuto umanitario …………………………………………………………………………..…… p. 15

L’aiuto umanitario nei campi profughi sahrawi ………………………………………..……….. p. 16

Economia e disuguaglianze …………………………………………………………….……………..… p. 17

Aiuto umanitario nei campi profughi: un primo bilancio …………………………………..…… p. 18

 

La dimensione campi profughi ………………………………………..………………………………. p. 20

Realtà parallele …………………………………………………………………………..……………..… p. 20

Identità e resistenza …..………………………………………..…………………………………………… p. 22

 

Conclusioni …..……………………………………………………………………………………………. p. 24

 

Bibliografia ..………………………………………..……………………………………..…… p. 27

Sitografia …..………………………………………..…………………………….……………………….… p. 28

Testimonianze ..………………………………………..………………………………………………..… p. 29

Introduzione

Il popolo sahrawi è un popolo diviso, così come lo è il suo territorio, il Sahara Occidentale: un muro di 2700 chilometri costruito dal Marocco negli anni ‘80 separa i territori sotto occupazione marocchina da quelli “liberati” gestiti dal Fronte Polisario, il movimento di liberazione nazionale sahrawi. 173’000 sahrawi vivono in esilio nei campi profughi in Algeria costruiti fra il 1975 e il 1976, dipendendo quasi totalmente dagli aiuti umanitari internazionali. Nel 1991 venne creata la MINURSO, la Missione ONU per l’organizzazione del Referendum per l’autodeterminazione: nel quadro di quest’ultimo, il popolo sahrawi avrebbe deciso se annettersi al Regno del Marocco oppure scegliere l’indipendenza. Oggigiorno il Referendum non è ancora stato organizzato e gli stessi negoziati fra il Fronte Polisario e il Regno del Marocco non sembrano avanzare.1

La situazione del Sahara Occidentale potrebbe essere a tutti gli effetti classificata come un’emergenza umanitaria che si protrae da 45 anni: ciò giustificherebbe la circolazione di aiuti umanitari lungo l’arco di quasi mezzo secolo senza che reali progressi siano stati registrati o che una soluzione politica al conflitto tra il Fronte Polisario e il Regno del Marocco sia stata quantomeno identificata. Tuttavia, il tempo sembra aver relegato la questione del Sahara Occidentale dalla categoria delle emergenze umanitarie a quella dei conflitti senza fine, mentre l’agenda politica mondiale l’ha cancellata dalla lista delle sue priorità. Il risultato è che nel silenzio mediatico internazionale, il popolo sahrawi continua a vivere diviso fra l’occupazione e l’esilio, in una situazione di assenza di diritti e nella dipendenza pressoché totale dagli aiuti umanitari internazionali.

Sorgono spontanee alcune domande: 1. Quali fattori o attori hanno contribuito a far cadere questa emergenza umanitaria in un’impasse da cui non sembra esserci via d’uscita? 2. Come interpretare un intervento umanitario internazionale della durata di 45 anni e destinato a persistere?; 3. Quali implicazioni si possono identificare per la popolazione “beneficiaria”, e quali strategie ha saputo mettere in atto quest’ultima?

Sono tre domande apparentemente semplici, ma che si articolano fra loro e ne producono altre, chiamando in causa la dimensiona storica, economica, politica, sociale, simbolica e identitaria. Tre domande che ci portano ad affrontare la questione del Sahara Occidentale adottando in parte una chiave di lettura marxista e post-coloniale, volta a considerare come oggetto di studio non tanto il subalterno, bensì l’insieme delle pratiche e degli attori globali, delle relazioni e delle articolazioni di potere che connettono l’egemonia internazionale con i soggetti locali.2 Un approccio a cui si accompagna però la volontà di restituire una dimensione culturale, e quindi concetti quali “identità”, “nazione” e “cultura” rimangono centrali perché consentono, fra le altre cose, di iscrivere la questione del Sahara Occidentale anche all’interno del “fenomeno migratorio”.

Le domande di cui sopra ci obbligano infine a considerare il sistema di circolazione degli aiuti umanitari nei campi profughi, senza il quale la sopravvivenza di buona parte della popolazione sahrawi sarebbe a rischio. L’aiuto umanitario inteso come sistema si presta così a essere analizzato nelle sue ambiguità e nelle sue diverse implicazioni sulla popolazione locale, tenendo conto che anche – e forse soprattutto – la retorica dell’ “aiuto” si situa su un livello politico. Il risultato è che l’analisi della questione del Sahara Occidentale richiede per forza di cose una sorta di etnografia dell’aiuto umanitario e delle sue istituzioni:3 questa consente di meglio interpretare le ragioni di alcune decisioni prese o non prese, i rapporti di potere in atto, la narrazione ufficiale e le rappresentazioni che riproduce riguardo sé e all’altro. Non solo: un’etnografia di questo tipo può svelare alcuni legami fra la circolazione degli aiuti umanitari e il fenomeno migratorio, restituendo un assaggio di determinati aspetti sociologici della “dimensione campi profughi”.

In sintesi, l’intero lavoro si articola a partire dalle tre domande di cui sopra e tenta di portare risposte che, per quanto parziali e incomplete, sappiano evidenziare gli aspetti più controversi della gestione della questione sahrawi.

Storia del Sahara Occidentale e situazione attuale

Il Sahara Occidentale rimane una questione aperta, un conflitto irrisolto che si trascina da decenni anche dopo la firma del Cessate il Fuoco del 1991. Le spiegazioni e le possibili interpretazioni sono numerose e talvolta divergenti a seconda della prospettiva e della chiave di lettura, spesso anche in termini ideologici. Si parla di decolonizzazione non completata, di interessi geopolitici, di sicurezza.

Il Sahara Occidentale è un territorio appartenente alla zona del Maghreb, principalmente desertico e con una densità di popolazione relativamente bassa. Tuttavia, le cause e gli effetti del conflitto dimostrano che la questione del Sahara Occidentale non si lascia circoscrivere a un’unica regione geografica, politica e sociale, ma che si tratta di un assunto politico e umanitario di carattere internazionale: per tentare di fare luce su alcuni degli aspetti di maggior rilievo per l’interesse di questo lavoro, sarà necessario volgere lo sguardo al passato coloniale, considerando brevemente alcuni aspetti storici e giuridici che hanno caratterizzato l’epoca contemporanea.

Il Sahara Occidentale, parte di quel vasto territorio tradizionalmente nominato dai suoi abitanti come il Trab al-Bidan – la “Terra dei Bianchi”, in opposizione alla Trab al-Soudan, la “Terra dei Neri”, ossia l’Africa Subsahariana – venne definito e considerato dalla Spagna come parte dell’“Africa utile”; la potenza europea procedette quindi all’esplorazione e alla valorizzazione delle sue risorse minerali.4 Fra il 1884 e il 1976 fu a tutti gli effetti una colonia spagnola conosciuta dagli europei come il “Sahara spagnolo”, i cui limiti territoriali vennero definiti nel corso delle negoziazioni franco-iberiche fra il 1900 e il 1912. Per quanto il colonialismo spagnolo nel Sahara Occidentale fosse considerato relativamente “blando” poiché riconosceva e tollerava parzialmente la diversità culturale, di fronte a questa situazione si sviluppò inizialmente una resistenza importante, cui succedette un periodo di pacificazione fra il 1934 e il 1958, anno in cui, a seguito dell’Indipendenza del Marocco dalla Francia (1956), si verificò una nuova ondata di proteste contro la forza coloniale.5Come risposta, contrariamente a quanto succedeva tutt’intorno e anche alla postura ufficiale dell’ONU di sostegno alle diverse lotte per l’Indipendenza, la Spagna di Franco – così come il Portogallo di Salazar – optò per la trasformazione delle proprie colonie in province: il Sahara Occidentale venne così registrato con lo stesso statuto delle Isole Baleari o delle Canarie.6

Nel 1975 si aprì un nuovo capitolo della storia coloniale nel Sahara Occidentale: mentre lo Stato spagnolo era impegnato a gestire il passaggio di poteri dovuto all’imminente morte di Franco, il 6 novembre il Regno del Marocco organizzò la cosiddetta Marcia Verde, il cui obiettivo gli occhi della monarchia era recuperare le province del Sud perdute: 300’000 fra soldati e civili penetrarono nel Sahara Occidentale e vi si insediarono, malgrado la condanna da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nella sua risoluzione n° 380. Pochi giorni più tardi, il 14 novembre 1975, lo Stato spagnolo firmò il Trattato di Madrid, con il quale cedeva il controllo territoriale del Sahara Occidentale al Regno del Marocco e alla Repubblica islamica della Mauritania. I sahrawi, gli abitanti del Sahara Occidentale, vennero così privati del documento di identità spagnolo conferito loro in precedenza e rimasero di fatto al margine delle categorie ufficiali di identificazione.7

A partire dalla fine del 1975, si intensificò il conflitto armato fra il Regno del Marocco, la Mauritania e il Fronte Polisario (Fronte di Liberazione Popolare di Saguia el Hamra e del Río de Oro), nato due anni prima come espressione della resistenza armata sahrawi. Migliaia di sahrawi furono costretti a lasciare le proprie terre trasformandosi prima in rifugiati interni e poi, dopo i bombardamenti al napalm e al fosforo bianco da parte dell’aviazione marocchina sui villaggi di Um Draiga, Tifariti e Guelta, in esiliati nei campi profughi nel deserto della vicina Algeria, poco più a sud rispetto alla città di Tindouf. Il 26 febbraio 1976, lo Stato spagnolo abbandonò ufficialmente il territorio del Sahara Occidentale, mentre il giorno successivo, il 27 febbraio, il Fronte Polisario annunciò la nascita della Repubblica Araba Democratica dei Sahrawi (RASD); il territorio rimaneva però di fatto sotto il controllo del Regno del Marocco e della Mauritania, benché quest’ultima ritirò ogni rivendicazione al cospetto il 12 luglio 1978. Fra il 1980 e il 1987 il Regno del Marocco costruì sei muri (per una lunghezza totale di oltre 2000km) per difendere le zone sotto il suo controllo e creare un’area cuscinetto per mantenere lontana la guerriglia del Fronte Polisario.8 Il territorio del Sahara Occidentale veniva così diviso in due parti: una, ben più ampia, con accesso all’oceano atlantico e ricca di risorse naturali, controllata dal Marocco, e l’altra, quasi totalmente desertica e inabitata, gestita dal Fronte Polisario. Il conflitto armato continuò finché L’OUA (Organizzazione dell’unità africana – oggi Unione africana) e l’ONU ottennero una prima tregua nel 1988 e la firma del Cessate il Fuoco nel 1991.

Nello stesso anno venne istituita la MINURSO, la missione ONU il cui mandato consisteva nell’organizzazione di un referendum per l’autodeterminazione; quest’ultimo prevedeva che il popolo sahrawi avrebbe votato per decidere se annettersi al Regno del Marocco oppure ottenere l’indipendenza. Sebbene il mandato prevedeva che il referendum venisse organizzato nell’arco di 6 mesi, i tempi si dilatarono principalmente a causa di profonde discordie relative ai criteri di identificazione dei votanti: solo a cavallo fra il 1999 e il 2000 le Nazioni Unite stabilirono che gli aventi diritti al voto sarebbero stati coloro i quali già figuravano nel censimento effettuato dalle autorità colonizzatrici spagnole nel 1974. Oggigiorno il referendum per l’autodeterminazione non è ancora stato organizzato a causa di innumerevoli impedimenti politici e diplomatici, mentre la MINURSO – il cui mandato viene prolungato di anno in anno e più recentemente ogni sei mesi – si mantiene nel territorio svolgendo principalmente compiti di monitoraggio del mantenimento del Cessate il Fuoco.

Nel corso degli ultimi 29 anni si sono susseguite diverse tavole rotonde negoziali, della durata di mesi o anni. Dopo una prima fase in cui il governo marocchino si oppose all’organizzazione del referendum contestando la lista degli aventi diritto al voto, nel 2003 venne allestito il “Piano Baker II”, che prendeva nome dall’allora inviato speciale per la questione del Sahara Occidentale. In sintesi, esso prevedeva un periodo di iniziale autonomia del Sahara Occidentale all’interno del Regno del Marocco, della durata di 4 o 5 anni, al termine dei quali sarebbe stato organizzato il Referendum per l’autodeterminazione. Sebbene il piano sembrasse sfavorire il Fronte Polisario e avvantaggiare invece il Regno del Marocco in quanto poteva contare sull’appoggio della Francia quale membro del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, quest’ultimo rifiutò il piano.9 Anche le negoziazioni del 2007 e del 2009 non diedero risultato alcuno, e nemmeno la richiesta avanzata da un gruppo di parlamentari europei di includere nel mandato della MINURSO il monitoraggio del rispetto dei Diritti Umani nei Territori Occupati venne accolto. Il 6 novembre 2015, in occasione del 40° anniversario della Marcia Verde, Re Mohamed VI ha ribadito che non permetterebbe nient’altro che uno statuto di autonomia alle “province del Sud”,10 mentre le ultime negoziazioni avviate in dicembre 2018 e presiedute dall’inviato speciale Horst Kohler si sono sciolte già in maggio 2019 con le conseguenti dimissioni di quest’ultimo.

Un’interpretazione della situazione attuale

È un conflitto dimenticato, è un conflitto nascosto, molto nascosto, perché non è coperto mediaticamente, purtroppo. Ma dietro questo conflitto c’è una grande sofferenza umanitaria, c’è una crisi umanitaria. Parliamo di un popolo che è stato diviso da un muro di 2700 chilometri, lungo il quale sono state seminate 7 milioni di mine antiuomo. È un muro che ha frantumato la vita socio-economica e culturale del popolo sahrawi. Metà della popolazione sahrawi vive sotto l’occupazione marocchina, con uno statuto di cittadini di seconda classe: non ha diritto di lavorare, di associarsi o di esprimersi. Nessun diritto della Carta delle Nazioni Unite viene rispettato nel Sahara Occidentale.11

Benché irrisolto, il Sahara Occidentale è a tutti gli effetti un “conflitto dimenticato”; lasciato da parte nelle mobilitazioni di gran parte della società civile internazionale ma anche e soprattutto da parte degli Stati, dei partiti del parlamento europeo, delle Nazioni Unite e delle agende politiche legate al territorio del Nord Africa. Certamente, l’oblio generalizzato nel quale è caduta la questione del Sahara Occidentale risponde a un equilibrio geopolitico più ampio e che è mutato nel tempo, dagli anni delle decolonizzazioni a quelli dei blocchi politico-economici della Guerra Fredda, arrivando infine alle attuali nuove priorità in termini di sicurezza. In questo senso, la contestualizzazione storica e giuridica del capitolo precedente risulta indispensabile per comprendere almeno in parte la questione del Sahara Occidentale così come si presenta oggi, riconoscendo posizioni contrastanti che hanno origini culturali remote e che si sono nutrite di un’ulteriore dimensione politica con la costituzione degli Stati-Nazione.

Questo secondo capitolo dedicherà uno spazio iniziale all’analisi delle contraddizioni giuridiche, politiche ed economiche che caratterizzano l’impasse generale relativa alla questione del Sahara Occidentale, dopodiché porterà l’attenzione sulle implicazioni per la popolazione sahrawi della presenza della forza occupante marocchina nel territorio. Entrambi gli scenari saranno utili per considerare in seguito i circuiti dell’aiuto umanitario nei campi profughi sahrawi in Algeria.

Una serie di contraddizioni

Il Sahara Occidentale è considerato come un territorio non autonomo secondo il Diritto Internazionale e pertanto la presenza marocchina è stata qualificata come occupazione illegale da parte delle Nazioni Unite; anche l’Unione Europea si è più volte espressa in tal senso, così come l’Organizzazione per l’Unità Africana e l’Unione Africana. Nel 2016 lo stesso Ban Ki-Moon, allora Segretario Generale delle Nazioni Unite, in occasione di una visita ai paesi confinanti con il Sahara Occidentale definì “occupazione” la presenza marocchina nel territorio.12

Su questa base giuridica, oltre che sulla scia delle esperienze rivoluzionarie e indipendentiste, si formula la rivendicazione del Fronte Polisario di un Sahara Occidentale libero e sovrano, e quindi del diritto all’autodeterminazione attraverso il voto nel referendum; contrariamente a ciò, il Regno del Marocco, come visto in precedenza, non ammette altro che una potenziale e comunque limitata autonomia. Il conflitto si estende dunque sul piano diplomatico, dove il Fronte Polisario – per quanto ancora sostenuto dall’Algeria – ha un ruolo molto ridimensionato nello scacchiere geopolitico internazionale e dove invece il Marocco gode dell’appoggio di potenze europee che fanno parte del Consiglio di Sicurezza. Le stesse Nazioni Unite lasciano intendere di non volere in nessun modo imporre una soluzione.13

La questione del Sahara Occidentale rivela un altro aspetto molto controverso se analizzata secondo un approccio che prenda in conto la dimensione dei diritti umani. Fra il 2015 e il 2016 tale dimensione fu effettivamente contemplata da parte delle Nazioni Unite, per la prima volta in maniera seria e collocandola dunque al centro della questione. Le Nazioni Unite chiedevano che venisse effettuato un monitoraggio costante, indipendente e imparziale del rispetto dei Diritti Umani nei territori occupati militarmente dal Regno del Marocco.14 Si trattava senza dubbio di un passo importante e significativo, poiché questionava la gestione del conflitto da parte del Marocco, riconosceva le lotte non violente del popolo sahrawi e dimostrava che anche nei circuiti della governance globale non era più possibile prescindere dai diritti umani. Ciò nonostante, la MINURSO rimaneva e rimane tuttora priva del mandato di monitoraggio del rispetto dei diritti umani, mentre ai giornalisti, ai ricercatori, a molti politici e ai rappresentanti di organizzazioni per i diritti umani, il Regno del Marocco continua a vietare l’accesso al territorio. Il carattere invisibile del conflitto sembra dunque rispondere non soltanto a un problema di priorità all’interno dell’agenda politica globale, ma anche a una strategia ben precisa. Certamente, si delinea una domanda che risulta essere centrale anche per l’interesse di questo lavoro, ossia quale sia il reale peso accordato ai diritti umani all’interno di un conflitto locale ma con risonanza internazionale come quello in questione, e pure che cosa si intenda per “diritti umani”. In altre parole, la domanda è la seguente: come si spiega il persistere di un’occupazione de facto di un territorio non autonomo da parte di un paese straniero? Se tale domanda non trova una risposta nel Diritto Internazionale, sarà utile considerare altri aspetti implicati.

Accordi commerciali e interessi globali

Morocco gained siginificant economic opportunities through the occupation of Western Sahara. For this and some other reasons (nationalism, Berber separatist movements, etc.), it does not intend to return the area to the SADR.15

Fra gli aspetti di maggior rilievo necessari a rispondere almeno in parte alle domanda formulata poc’anzi, è doveroso considerare l’aspetto economico e commerciale che soggiace al conflitto e alla sua persistenza nel tempo. Per quanto il Regno del Marocco abbia investito ingenti somme di denaro nelle “province del Sud” fin dagli albori dell’occupazione, è indubbio che le risorse naturali presenti nel terreno e al largo delle coste del Sahara Occidentale rappresentino, insieme ad altre questioni politiche, sociali e identitarie, la ragione principale della sua ostinazione nel voler negare a tutti i costi l’indipendenza.

Grazie allo sfruttamento delle risorse naturali presenti nel suolo del Sahara Occidentale, il Regno del Marocco produce annualmente all’incirca 30 milioni di tonnellate di fosfato, esportandone la metà e facendo del fosfato il 20% delle sue esportazioni.16 L’impresa semi-statale Phosphoucraa, sussidiaria di OCP, impiega manodopera locale sahrawi a basso costo, discriminandola in base all’appartenenza etnica rispetto ai lavoratori marocchini presenti nel territorio. Molto spesso, tale discriminazione si spinge fino all’esclusione, contribuendo alla colonizzazione e al cambiamento demografico propugnato dalla forza occupante. Queste le parole del figlio del fondatore della Confederazione Sindacale dei Lavoratori e dei Disoccupati Sahrawi (CSTS):

Questa associazione rappresenta gli esclusi dalle assunzioni dell’impresa Phosphoucraa: hanno passato l’esame di assunzione, ma visto che sono dei sahrawi, sono stati esclusi. L’impresa ha fatto entrare dei coloni marocchini al loro posto. I Sahrawi non hanno il diritto di lavorare. Visto che l’imprenditore proprietario dell’impresa è un marocchino, non assumerà nessun sahrawi. Quindi il lavoro c’è, ma non per i sahrawi.17

Oltre al fosfato, riveste grande importanza il commercio di sabbia proveniente dal Sahara Occidentale e in misura ancor maggiore la pesca intensiva al largo delle sue coste. Gli accordi fra l’Unione Europea e il Marocco relativi a ciò risalgono in prima istanza al lontano 1995; validi fino al 1999, non ve ne furono altri fino al 2007, quando entrò in vigore l’Accordo di Partenariato nel Settore della Pesca, valido fino al 2011 e poi prolungato fino al 2015. Più recentemente, con 415 voti favorevoli e 189 contrari, nel febbraio 2019 è stato varato dal parlamento europeo un nuovo accordo di pesca con il Marocco, che include anche le regioni appartenenti al Sahara Occidentale senza che la popolazione sahrawi locale sia stata consultata. Proprio in merito a quest’ultimo punto, lungo gli ultimi decenni varie organizzazioni non governative hanno denunciato tali accordi di pesca in quanto interessano un’area che non rientra nel territorio geografico del Regno del Marocco: il Diritto Internazionale considera infatti illegale questa pratica,18 e la stessa Corte di Giustizia dell’Unione Europea l’ha definita tale in una risoluzione del 2016.19

Dal canto suo, i paesi stranieri e le imprese multinazionali sembrano non voler investire grandi energie nel porre un termine a questa situazione di violazione del Diritto Internazionale, ed è anzi forse proprio in questo senso che continuano a considerare il Sahara Occidentale come pedina non del tutto secondaria nello scenario di quella che fino a poco tempo fa era definita come l’“Africa utile”.

Conseguenze dell’occupazione sull’identità sahrawi

Il Marocco ha sempre cercato di cancellare la cultura sahrawi. Ciò è iniziato con il divieto di portare la Malhefah nelle scuole: la Malhefah è il nostro abito tradizionale di noi donne sahrawi. Poi il Marocco ha cancellato la nomenclatura tradizionale sahrawi. Noi sahrawi ci chiamiamo con tre nomi: il nome proprio, il nome del padre e il nome del nonno. Questo tipo di nomenclatura ci permette di riconoscerci, di situare le persone nella famiglia, nel luogo geografico e nello status sociale. Il Marocco ha cancellato questa nomenclatura identitaria, imponendoci la nomenclatura francese con nome e cognome. Quando non c’era un cognome, il Marocco ce lo ha imposto, inventandone alcuni che non hanno niente a che fare con la nostra cultura e sono un’offesa nei nostri confronti, come per esempio “jeans”, o “sale”, o “denaro”. È veramente vergognoso vedere come il Marocco ha cercato di privare il popolo sahrawi della sua cultura.20

La violenza a cui è sottoposta la popolazione sahrawi nei territori occupati ha origini multiple e non si limita al non rispetto dei dittami del Diritto Internazionale da parte del Regno del Marocco e di altre forze politiche ed economiche. Come traspare dalle parole della persona intervistata, il conflitto e l’occupazione si muovono in larga misura sul piano simbolico e identitario, e quindi è in gioco la specificità culturale sahrawi. Lo stesso dibattito diplomatico attorno alla questione del referendum è eloquente: la monarchia marocchina non è disposta a riconoscere il principio di autodeterminazione al popolo sahrawi, offrendo in cambio unicamente uno statuto di parziale autonomia all’interno del suo Regno, subordinando quindi la specificità sahrawi alla cultura dominante e ufficiale. In questo senso, a partire dal 1975 fino ai giorni nostri, le strategie messe in atto dal Regno del Marocco sono state diverse fra loro e sono naturalmente state influenzate dai tempi storici; le parole del seguente testimone, portavoce dell’Associazione dei Famigliari dei Prigionieri Politici Sahrawi, sono significative al riguardo:

Qualsiasi sahrawi sarà discriminato da parte delle autorità marocchine. Che sia attivista, difensore dei diritti umani, disoccupato, donna, bambino, anziano o anziana: qualsiasi sahrawi. Ma la vera vendetta si consuma contro i militanti e i difensori dei diritti umani: pestaggi in mezzo alla strada, arresti per vari giorni, incarcerazioni illegali con giudizi illegali. L’identità sahrawi è al centro della repressione, poiché ogni sahrawi che riconosce il diritto all’autodeterminazione del suo popolo, verrà represso. Durante l’invasione militare ci sono state persone che sono morte e persone che sono scomparse. Ci sono persone che sono rimaste disabili, altre che hanno passato tutta la loro vita in prigione, fin verso il 1992, quando è stata fatta una pressione internazionale per liberarli. La strategia oggi è cambiata: invece di far sparire le persone, queste vengono arrestate e condannate con delle pene molto pesanti: in questo modo nessuno potrà contraddire la propaganda marocchina.21

A dimostrazione del cambiamento strategico messo in atto nel corso del tempo, la nuova Costituzione marocchina menziona e riconosce la lingua usata dai sahrawi, l’hassanyia, ma unicamente come parte dell’identità marocchina.22 Tale processo di recupero e assimilazione dell’identità sahrawi come parte di quella marocchina si manifesta anche nelle politiche pubbliche marocchine rivolte al territorio del Sahara Occidentale: gli importanti investimenti economici nei Territori operati dalla Corona non sono infatti altro che l’ennesima conferma di come il Regno del Marocco abbia sempre fatto riferimento al Sahara Occidentale come al “Sahara marocchino”. Il cambiamento nel paradigma dell’assimilazione, passato dalla repressione di ogni forma di manifestazione culturale e identitaria sahrawi al suo riconoscimento parziale e come parte dell’identità marocchina, non ha mai implicato alcun tipo di messa in questione di quest’ultima: l’identità sahrawi rimane “non legittima”, e non è ammesso che questa venga percepita ed espressa.23 Benché in forma leggermente più velata, lo stesso ricorso alla violenza per reprimere la resistenza sahrawi rimane comunque all’ordine del giorno e si manifesta in varie forme, come la discriminazione su base giuridica, l’assenza di scuole e ospedali, l’esclusione dal mercato del lavoro di buona parte della gioventù sahrawi – costringendola di fatto all’emigrazione – oppure in atti di violenza fisica e incarcerazioni, come dimostra lo smantellamento del campo di protesta sahrawi di Gdeim Izik nel 2010 e le continue vessazioni contro chi si assume il diritto alla libertà di espressione. Non è possibile prescindere, anche in questo caso, dalla dimensione di genere, e occorre pertanto registrare che buona parte degli attacchi repressivi da parte delle forze armate marocchine sono diretti verso donne sahrawi, considerate nella cultura sahrawi come il centro identitario.

Geopolitica e colonialismo moderno

Il conflitto del Sahara Occidentale ha attraversato diverse fasi storiche e vi si è adattato, non riuscendo però mai, in 45 anni, a uscire dalla situazione di stallo che vede una buona parte del territorio occupato militarmente e oltre metà della popolazione costretta a vivere in esilio all’estero. Alla luce di quanto visto finora, appare evidente la dimensione internazionale del conflitto del Sahara Occidentale, cosa del resto non nuova: lo scacchiere delle alleanze dimostra come nei decenni scorsi vi fosse in gioco il controllo del Maghreb; da qui la profonda ostilità fra Marocco e Algeria, mentre l’appoggio quasi incondizionato alla monarchia marocchina da potenze del Consiglio di Sicurezza come Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna, è in parte anche risultato di una continuità di alleanze ereditate dalla Guerra Fredda.24 Non va inoltre dimenticato il ruolo che assume il Regno del Marocco nella regione del Nord Africa, dove viene riconosciuto come anticamera di accesso allo spazio europeo e quindi come fattore di contenimento dell’immigrazione africana e del traffico di droga, oltre che come alleato nella lotta al terrorismo. In questo senso, il dramma del Sahara Occidentale sembrerebbe essere la sua posizione geografica, insieme alle ricchezze presenti nel suolo e nelle sue acque. Quanto è immediatamente percepibile è l’insieme di contraddizioni di cui si è detto in precedenza e che oppongono la teoria e la retorica del discorso ufficiale allo status quo caratterizzato da un’occupazione militare, dalla violazione dei diritti della popolazione locale e dal saccheggio delle risorse naturali. In altri termini, si delinea uno scontro evidente fra i Diritti Umani e il Diritto Internazionale da un lato, e gli interessi di geopolitica globale e di governance mondiale dall’altro. Questo tipo di contraddizione è caratteristico di quella che viene definita come Realpolitik.

Per concludere questo secondo capitolo, occorre tornare a riflettere su una definizione che viene spesso utilizzata per riferirsi al Sahara Occidentale, ossia l’“ultima colonia africana”. Tale definizione suggerisce che le radici del conflitto non risiedono nel processo di decolonizzazione non completato, quanto piuttosto nella continuità con il colonialismo. In questo senso, dalla fine della Guerra Fredda ci troviamo – secondo l’autore Jacob Mundy – in un mondo in cui si è passati dal colonialismo moderno al colonialismo globale, attraverso un processo che ha trasformato i meccanismi di dominio ma non ne ha modificato la struttura. A conferma di ciò, Jacob Mundi sostiene che viene mantenuto l’ordine mondiale centro – periferia, ma si dà una differenza sul piano metodologico in quanto il nuovo impero procede attraverso l’imposizione di norme (libero mercato, liberal-democrazia, ecc.) piuttosto che attraverso la conquista. Quello che era il terzo mondo rappresenterebbe ora la periferia, nella quale avvengono conflitti spesso dovuti al saccheggio delle risorse naturali strategiche. Gli stessi conflitti verrebbero mantenuti o risolti secondo gli interessi strategici del centro.25

Al di là di queste interessanti considerazioni che chiamano in causa anche le teorie della dipendenza ma che rimangono tuttavia imbrigliate esse stesse nel paradigma della Realpolitik, interessa in questo lavoro continuare a riflettere secondo i termini delle contraddizioni che sono venute delineandosi, e quindi constatare due aspetti centrali. Il primo è che il mantenimento del conflitto grava sulla pace, la sicurezza e la stabilità di tutta la regione del Maghreb, e che quindi non è a lungo termine profittevole per nessuna delle parti implicate. Per quanto ciò possa sembrare un’ovvietà, rappresenta uno dei punti chiave su cui dovrà ripartire il processo di pace, e del resto è proprio su questa base che sono state impostate le ultime negoziazioni, per quanto poi naufragate. Il secondo punto, anch’esso centrale, interroga le intenzioni, l’etica e le pratiche della comunità internazionale, al bivio fra la l’apprendimento dal passato e i possibili scenari futuri, fra il riconoscimento dei diritti o la reazione totalitaria:

Estas nos parecen preguntas claves. Si la comunidad internacional no puede garantizar un derecho fundamental como el de la autodeterminación, como podrá defender otros derechos humanos? Lo que parece que está en juego no es simplemente el futuro de un pequeño país; la cuestión es sobre el principio que prevalecerá en el siglo XXI. Será el derecho a la autodeterminación o será el derecho a la conquista?26

A partire dal diritto all’autodeterminazione, la riflessione – e la domanda – andrebbe forse estesa all’insieme dei Diritti Umani e in particolare al modo in cui essi vengono interpretati e rivendicati. Si delineerebbe così un ventaglio piuttosto ampio e talvolta paradossale di possibilità retoriche e pratiche nel riferirvisi, e si manifesterebbero forse in modo più sincero le reali intenzioni che si celano dietro determinate agende politiche e, pure, svariati programmi di aiuto.

Saranno i prossimi capitoli del presente lavoro a fare luce sull’ennesima contraddizione che attanaglia la questione del Sahara Occidentale e che tocca proprio la questione dei diritti e dell’aiuto umanitario: la riflessione qui abbozzata sarà centrale per lo sviluppo di ulteriori considerazioni.

I campi profughi e gli aiuti umanitari

Il terzo capitolo di questo lavoro, insieme al successivo, è sicuramente il più denso e corposo poiché tenta di riprendere quanto visto finora cercando di inserirlo nell’analisi della circolazione e degli effetti degli aiuti umanitari nei campi profughi sahrawi in Algeria. Gli stessi campi profughi, intesi come realtà geografica, umana, economica e socio-politica, vengono ora posti al centro dell’interesse, a fronte di un maggior spazio dedicato nei capitoli precedenti alla questione storica e politica del Sahara Occidentale, principalmente nei Territori Occupati.

Dopo la restituzione di alcuni dati descrittivi iniziali indispensabili per comprendere questo particolare contesto, verrà analizzata la circolazione degli aiuti umanitari a le sue implicazioni sul breve e lungo termine. A partire da ciò, si avrà la possibilità, nel quarto capitolo, di approfondire la riflessione sul fenomeno migratorio e soprattutto sulla dimensione dei campi profughi.

La Repubblica Araba Democratica Sahrawi

Mappa della distribuzione dei campi profughi sahrawi27

Percorrendo la strada asfaltata che si inoltra nel deserto algerino a sud della città militarizzata di Tindouf, a pochi chilometri di distanza fra loro sorgono i diversi agglomerati dei campi profughi sahrawi. Fra questi, i principali hanno assunto il nome delle città del Sahara Occidentale occupato, e quindi si ritrovano El Ayoun, Smara, Dakhla, Ausserd, oltre a Rabuni, il centro amministrativo della Repubblica Araba Democratica Sahrawi. L’insieme dei campi profughi è un paesaggio fisico e geografico in evoluzione, cresciuto su un territorio vasto e inospitale come quello della Hamada28 dal momento in cui, nel 1975, cominciarono ad affluirvi i primi profughi sahrawi in fuga dalla guerra e dalle bombe dell’aviazione marocchina. Le seguenti parole di una testimone diretta ricostruiscono i primi tempi dell’esilio sahrawi in Algeria:

Quando arrivammo qui all’inizio non c’era nulla, era solo Hamada. Solo in seguito si sviluppò l’idea di creare delle Wilaya, ossia diversi agglomerati all’interno del Campo Profughi. Ma all’inizio, quando arrivarono i primi sahrawi, non c’era nulla, le famiglie costruivano le tende con le malhefa, gli abiti tradizionali delle donne. Poi, col passare del tempo, abbiamo cominciato a costruire e sono nate le prime Wilaya: Smara, Laayoune e Dakhla.29

La popolazione nei campi profughi sahrawi

Le cifre relative alla popolazione sahrawi in esilio nei campi profughi in Algeria è stato, nel corso dei decenni, motivo di disaccordo; del resto, è quasi scontato che ciò accada in quelle situazioni in cui si tratta di restituire il numero di persone soggette a “migrazione forzata”: è infatti comune che si ricorra alla cosiddetta “politica delle cifre”, dove i diversi attori alzano o abbassano il totale in funzione di motivi politici o dei loro obiettivi più o meno dichiarati.30 Nel caso dei Sahrawi e non solo, questa tendenza è identificabile anche in altri ambiti, come per esempio la costruzione di un’identità collettiva sulla base di una memoria storica condivisa: dal momento che il Referendum per l’autodeterminazione avrebbe avuto come nucleo tematico l’identità etnica, il Fronte Polisario costruì la sua lotta politica cercando di unire sotto un’unica identità i vari gruppi che tradizionalmente popolavano il Sahara Occidentale, una modalità che fu nondimeno adottata anche dal Regno del Marocco.

Tornando alle cifre dell’esilio, secondo i dati raccolti dall’UNHCR risalenti al 31 dicembre 2017, la popolazione sahrawi nei campi profughi ammonta a 173’600.31 I grafici seguenti rappresentano la sua conformazione e ripartizione.

La gestione della vita pubblica nel campi profughi sahrawi

I campi profughi sahrawi costituiscono una realtà a sé stante, per quanto vi sia un certo movimento di persone al suo interno e anche numerosi scambi con l’esterno. Malgrado sia geograficamente parte del territorio algerino, l’area in cui sono ubicati è la Repubblica Araba Democratica Sahrawi, governata dal Fronte Polisario che ne ha ufficialmente sancito la nascita il 27 febbraio 1976. Da quel giorno in poi, 82 Stati l’hanno riconosciuta ed è entrata a far parte dell’Unione africana; tuttavia, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite non ha riconosciuto al Fronte Polisario lo status di osservatore e classifica il Sahara Occidentale come territorio non autonomo.

L’amministrazione della vita pubblica nei campi profughi segue un sistema legale e religioso che risponde direttamente al Fronte Polisario, il quale a sua volta si articola nel Parlamento sahrawi e nel Consiglio Nazionale. Ogni agglomerato, detto wilaya, si compone di distretti (daryia), ognuno dei quali ha un suo consiglio amministrativo che fa da tramite con la municipalità, al cui capo risiede un governatore o una governatrice: il o la wali. Ogni wilaya offre diversi servizi come ospedali e scuole, e oltre a ciò vi è un esercito e un corpo di polizia a livello nazionale.

Se da un lato il Regno del Marocco accusa costantemente il Fronte Polisario di essere un’organizzazione terroristica che mantiene sequestrata la popolazione sahrawi nei campi profughi in modo da garantirsi il controllo su di essa, dall’altro, per la sua impostazione ideologica e politica, la Repubblica Araba Democratica Sahrawi è stata nel tempo riconosciuta da molti come un esempio di democrazia partecipativa, mentre lo stesso Fronte Polisario – considerato dalle Nazioni Unite l’unico rappresentante della popolazione sahrawi – come un’organizzazione progressista. Questo aspetto sembra essere confermato anche dalle statistiche della partecipazione femminile nella vita pubblica e pure da quanto ribadisce la governatrice della Wilaya di Ausserd:

Sfortunatamente, quando vediamo la realtà politica che ci sta attorno soprattutto nei paesi confinanti, la situazione non è incoraggiante. Però è anche per questo che stiamo dando tutte le nostre energie per creare un paese indipendente che sia governato dal Fronte Polisario, perché nella sua struttura e nel suo programma c’è la giustizia e l’uguaglianza di genere come priorità. Le donne sahrawi hanno un ruolo cruciale nella società, come dimostrano le statistiche: rappresentano l’80% nel settore dell’educazione, il 70% nella sanità, e forse anche più del 90% negli uffici dell’amministrazione locale. Il contributo delle donne alla causa sahrawi è fondamentale, tanto qui come nei Territori Occupati.32

Alla luce di quanto detto finora e delle considerazioni relative agli aiuti umanitari che verranno a breve, risulta interessante riportare le parole di Harrel-Bond, autrice del libro Imposing Aid, in riferimento alla situazione dei campi profughi sahrawi: “Like the Tibetans, the Saharawi also provide a model of “successful” refugee adaptation without assimilation”.33

L’autrice aggiunge inoltre che quello dei campi profughi sahrawi è un esempio di resilienza rispetto alla “sindrome di dipendenza” che può essere innescata dall’insieme degli aiuti umanitari nei campi profughi e altrove.34 Certamente, queste parole vanno contestualizzate nel tempo storico in cui sono state formulate, ma è pur vero che la narrazione dell’efficienza della gestione interna dei campi profughi sahrawi è oggigiorno ancora piuttosto diffusa fra le ONG presenti nel terreno e altre organizzazioni di dimensioni ben più grandi, risultato forse di una valutazione superficiale del contesto e dei reali bisogni della popolazione. Non solo: tale narrazione è anche quella del Fronte Polisario, il quale oscilla fra la denuncia del tasso di disoccupazione del 100% cui è costretto il popolo sahrawi nei campi profughi e della conseguente dipendenza dagli aiuti internazionali, e la rivendicazione della propria capacità di gestione interna autonoma.

Quel che interessa registrare in questo lavoro è proprio questa narrazione a tratti schizofrenica e soprattutto le basi su cui poggia, ossia la valutazione che viene fatta dei bisogni e pure dei diritti della popolazione locale. In altre parole, possiamo fin d’ora domandarci se il soddisfacimento dei bisogni primari possa ritenersi motivo sufficiente per dichiarare la riuscita di un programma di aiuto umanitario. Al contempo, possiamo domandarci se questa narrazione della buona gestione dei campi profughi sahrawi, accompagnata dall’oblio nel quale è caduta la questione del Sahara Occidentale, non sia altro che parte del processo di normalizzazione dello status quo.

Le contraddizioni degli aiuti umanitari

L’aiuto umanitario

It is extremely difficult, if not impossible, for a humanitarian agency that receives subtantial amounts of governments money to act as an advocate for an oppressed group whose interests contradict those either donors or hosts. Political considerations are the hinterland to policy concerning aid to refugees. The danger of the assumption that it is possible to separate politics from humanitarism is that it prevents an examination of the effects of local, national and international politics on refugee policy.35

L’aiuto umanitario, per sua definizione e attuazione storica, è chiamato in causa in situazioni puntuali in cui viene affrontata un’emergenza; il suo scopo è quello di garantire un insieme di infrastrutture di base e di beni alimentari e sanitari di prima necessità per permettere alle popolazioni colpite di sopravvivere nell’immediato. Diversamente rispetto alla cooperazione internazionale o all’approccio dei diritti umani, l’aiuto umanitario si occupa di condizioni fisiche e materiali, e si caratterizza per una durata limitata nel tempo, in quanto viene poi sostituito con progetti di ricostruzione – o sviluppo – sul medio e lungo termine.

Secondo Harrel-Bond, quando si tratta di popolazioni soggette a migrazione forzata e che sono dunque impossibilitate a tornare nella loro terra di origine, lo scopo dell’aiuto umanitario è quello di rendere queste ultime economicamente autosufficienti nel minor tempo possibile, in modo da poter sospendere l’invio dei beni di prima necessità. L’obiettivo dell’autosufficienza economica dei rifugiati può essere raggiunto attraverso l’integrazione degli stessi nei sistemi economici e sociali del paese che li ospita.36 Ciò non è tuttavia affatto scontato, ma è indubbio che la partecipazione attiva delle popolazioni rifugiate nella gestione della loro stessa situazione è fondamentale: è uno strumento di empowerment e una condizione imprescindibile per la buona riuscita dell’intervento umanitario.

L’aiuto umanitario nei campi profughi sahrawi

Sulle facciate dei muri di sabbia e cemento dei piccoli edifici costruiti nei campi profughi sahrawi in Algeria, appaiono quasi immancabilmente simboli e scritte in spagnolo, inglese, italiano, francese: rimandano pressoché sempre ai dipartimenti di cooperazione internazionale dei vari paesi da cui provengono i fondi che hanno permesso la loro costruzione. In questo modo, dalle biblioteche alle farmacie, dai centri medici alle scuole, tutto, nei campi profughi, manifesta la provenienza dei “doni”. Quando non sono aiuti ufficiali provenienti dagli Stati, si tratta di “solidarietà informale”, quindi progetti o donazioni di ONG. Camminando fra le abitazioni e i giardini in sabbia che le separano le une dalle altre, non è raro intravvedere sacconi bianchi di mais, cipolle e riso: i caratteri cubitali di colore azzurro riportano le varie sigle delle Nazioni Unite.

Durante il periodo dalla creazione dei campi profughi sahrawi – i secondi più anziani al mondo – fra il 1975 e il 1976 fino alla fine degli anni ‘80, gli aiuti umanitari provenivano unicamente dal governo algerino e da qualche sparuto comitato internazionale di appoggio al popolo sahrawi; solo in seguito venne attivata la distribuzione di cibo da parte del PAM – Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite – e dell’UNHCR. A partire dalla fine del conflitto armato nel 1991, il totale degli aiuti umanitari è andato crescendo, principalmente in provenienza da Stati quali Brasile, Arabia Saudita, Stati Uniti, Cuba e Spagna, oltre che dalla Croce Rossa, dalla Mezzaluna rossa e da centinaia di gruppi e organizzazioni della società civile internazionale.37

Secondo i dati di gennaio 2018 dell’UNHCR, attualmente 125’000 individui ricevono aiuti alimentari, e 90’000 fra loro rappresentano la fascia più vulnerabile della popolazione. L’ammonto totale degli aiuti è rimasto più o meno invariato dal 2007, nonostante la crescita della popolazione:38le mancanze vengono sopperite dai flussi della solidarietà informale, i quali però non sono sufficienti né regolari e comportano ulteriori dinamiche non orizzontali di potere. Per quanto riguarda la distribuzione dei beni di prima necessità, se ne occupa il Fronte Polisario quale organo amministratore dei campi profughi. Riprendendo quanto anticipato all’inizio di questo capitolo, il Fronte Polisario è ambiguo nella sua narrazione rispetto alla gestione dei campi profughi, rivendicando in alcuni momenti l’autosufficienza amministrativa e denunciandone in altri la totale dipendenza da terzi, a dimostrazione della necessità di una reale soluzione politica. Quel che è certo è che i campi profughi sahrawi e quindi la sopravvivenza della popolazione che li abita, dipendono in tutto e per tutto dagli aiuti internazionali.

Economia e disuguaglianze

Numerosi studi ed esperienze concrete dimostrano che non è per nulla raro constatare che la distribuzione degli aiuti umanitari si concentri in modo diseguale fra le diverse fasce della popolazione; diversi fattori entrano in gioco, come per esempio la rappresentazione politica, l’appartenenza etnica o di genere. Tutto ciò può contribuire a peggiorare la situazione globale nella quale si trova una popolazione in stato di emergenza.39 A tal proposito, la governatrice della daryia di Tifariti, distretto della Wilaya di Smara, sottolinea l’impegno del Fronte Polisario nel distribuire i beni in modo egualitario, però al contempo riconosce l’esistenza di differenze socio-economiche fra la popolazione rifugiata:

Il Fronte Polisario distribuisce gli aiuti umanitari in maniera totalmente egualitaria. Le differenze sociali che potete vedere sono create da altri fattori, come per esempio l’invio di soldi da parte di emigrati all’estero oppure i progetti di cooperazione che coinvolgono alcune zone e persone piuttosto che altre.40

Va innanzitutto chiarito che nonostante il Fronte Polisario si ostini ad affermare che nei campi profughi vige un tasso di disoccupazione del 100% in quanto non vi è a suo dire nessuna attività economica, una forma di economia di mercato – nella maggior parte dei casi di tipo informale – è presente, e spesso poggia su disuguaglianze economiche preesistenti e dovute alla distribuzione di aiuti provenienti dall’esterno.

Le differenze socioeconomiche – per quanto comunque limitate – derivano principalmente da alcuni fattori relativamente facili da identificare: il padrinato da parte di famiglie spagnole su bambini sahrawi fra gli 8 e i 12 anni in seguito alla partecipazione di questi ultimi al programma di scambio denominato Vacaciones en Paz, che prevede il loro soggiorno estivo in terra spagnola; l’invio di denaro alla famiglia da parte di membri emigrati all’estero; l’appartenenza all’éliteintellettuale e molto spesso anche alla classe politica dirigenziale per chi ha avuto la possibilità di ottenere borse di studio offerte dal Fronte Polisario e andare a studiare all’estero – principalmente in Algeria e a Cuba; la possibilità di essere implicati in progetti di aiuto umanitario o di cooperazione, ottenendo piccole somme di denaro o traendone un impiego retribuito (hammams, internent points, servizio di taxi finanziato con microcredito, ecc.).41 I diversi fattori sono legati fra loro: nella maggior parte dei casi, chi ottiene i posti di lavoro retribuiti legati ai progetti di cooperazione già appartiene all’élite intellettuale e spesso anche alla classe politica, accumulando in questo modo un doppio impiego. Ciò accresce le sue possibilità economiche, e al contempo i suoi legami con il “mondo esterno” gli rendono accessibile l’ottenimento di un permesso di lavoro in Europa, spingendolo a lasciare non uno ma due attività lavorative nei campi profughi con profilo specializzato. È quanto si è registrato con il personale medico, molto spesso formato nelle università cubane: a partire dal primo decennio del XXI secolo si è registrato un forte tasso di emigrazione all’estero da parte di tale personale formato, che ha lasciato dietro sé un vuoto anche tecnico e ha contribuito al peggioramento delle condizioni generali della popolazione nei campi profughi. Infine, un’altra dimostrazione e conseguenza dell’interconnessione fra i diversi fattori di disuguaglianza socio-economica è data dal fatto che una buona maggioranza della popolazione non ha accesso ai circuiti degli aiuti – al di là di quelli primari – e dei progetti di cooperazione, per cui rimane ulteriormente esclusa e priva di entrate: un altro tipo di emigrazione, ben più precaria e pericolosa, si prospetta come possibilità quasi obbligata per questo tipo di popolazione.42

Aiuto umanitario nei campi profughi: un primo bilancio

Come ho detto, siamo molto grati per il supporto e gli aiuti che ci arrivano dall’esterno, ma vorremmo anche mandare un messaggio attraverso voi ai vostri paesi e ai vostri governi, affinché possano fare pressione sulle Nazioni Unite per fare lo sforzo di trovare una soluzione per questo conflitto politico prolungato, e per essere seri nel trovare una soluzione.43

Il precedente sottocapitolo dedicato alle disuguaglianze socio-economiche generate anche – benché non unicamente – dalla circolazione degli aiuti, dimostra, semmai ve ne fosse bisogno, che ogni intervento ha un suo impatto e che ciò vale tanto per le attività di aiuto umanitario quanto per i progetti di cooperazione. Le disuguaglianze socio-economiche, abbiamo visto, sono spesso direttamente collegate ad alcune scelte nella distribuzione degli aiuti; la questione della scelta riguarda anche la dimensione temporale, nella misura in cui l’urgenza viene definita in funzione di criteri spesso arbitrari e condizionati da altri fattori. In questo senso, la gestione degli aiuti umanitari nel campi profughi sahrawi dimostra che questi ultimi ricevono minor attenzione mediatica rispetto ad altre situazioni classificate come “più urgenti”, e soprattutto dimostra che la distribuzione di beni di prima necessità da ormai quarant’anni a questa parte ha contribuito a trasformare la questione dei campi profughi sahrawi in un’emergenza umanitaria pressoché normalizzata. Al contempo, non è più possibile negare che l’esperienza nei campi profughi sahrawi sia un fallimento dal punto di vista dell’aiuto umanitario e pure della cooperazione internazionale, poiché non ha contribuito a migliorare in nessun modo le condizioni di vita della popolazione locale; non solo, il fallimento risulta principalmente dal fatto che nessuna progettazione “sostenibile” sia mai stata attuata, privilegiando invece una ripetizione pressoché identica, infinita e senza via d’uscita dell’azione umanitaria.44

Le responsabilità dell’aiuto interazionale vanno ricercate anche sul piano etico-filosofico e politico, e in particolare, come dice Fassin,45si ricollegano alla differenza fra il diritto alla vita e il diritto dei vivi: il primo anima l’aiuto umanitario e si pone come obiettivo quello di permettere alle popolazioni colpite da catastrofi di sopravvivere fisicamente; il secondo raggiunge un livello successivo, fa appello al concetto di empowerment e chiama in causa i sopravvissuti per trasformarli – o meglio permettere loro di trasformarsi – in persone con diritti e dignità. In questo senso, le responsabilità dell’aiuto umanitario quanto alla situazione in cui versano i profughi sahrawi nei campi in Algeria derivano dal fatto che si limitano a soddisfare il diritto alla vita, ossia a mantenere fisicamente in vita i profughi stessi, trascurando invece la dimensione dei diritti dei vivi, e quindi riproducendo la stessa situazione senza concepire altre prospettive. In altre parole, questa gestione prolungata e non sostenibile della distribuzione degli aiuti umanitari contribuisce a mantenere i profughi sahrawi nella condizione di vittime anziché di soggetti attivi e con diritti: l’opposto rispetto a ciò che in Imposing Aid Harrel-Bond sosteneva dovesse essere il fine ultimo dell’azione umanitaria. Conviene dunque tornare alle sue stesse parole:

The basic lesson which emerges from all these scholarly studies is that while human societies everywhere are able to adapt, and that migration and resettlement may be one method, the imposition of these solutions, denying as it does fundamental human rights, create more problems than they solve.46

Nei capitoli precedenti si è potuto vedere come la questione del Sahara Occidentale, benché circoscritta sul piano geografico, risponda a esigenze ed equilibri internazionali. Lo stesso sembra valere per i sahrawi che vivono in esilio nei campi profughi, dove l’aiuto internazionale assume un ruolo importante e può essere interpretato in ottica della teorizzazione del dono e contro-dono fatta dall’antropologo Marcel Mauss. Notiamo infatti che il “dono” fisico e materiale (l’aiuto umanitario) presuppone una contropartita, la quale va spesso ricercata in una dimensione altra, come può essere quella del prestigio, dell’onore, del riconoscimento o, come nel nostro caso, delle relazioni di potere. Così, nei campi profughi sahrawi l’aiuto internazionale sembra in parte svolgere anche la funzione di regolatore dell’effervescenza sociale e politica: per questa ragione, per quanto la gioventù sahrawi chieda il ritorno alle armi, i quadri dirigenti del Fronte Polisario sanno che ciò è un’opzione da escludere non solo sul piano militare e delle alleanze politiche, ma pure su quello umanitario. Ne risulta che, come giustamente sostiene la propaganda marocchina, la popolazione in esilio nei campi profughi si ritrova in una situazione di ostaggio.

Le dinamiche di potere e di controllo geopolitico favorite dalla circolazione dell’aiuto umanitario ci riportano alle considerazioni fatte nella prima parte del presente lavoro relative alla continuità con le varie esperienze coloniali; quanto più interessa in questa sede, di nuovo, è però portare l’attenzione sulle contraddizioni che attanagliano l’intera questione del Sahara Occidentale e che non risparmiano l’azione umanitaria. Le stesse contraddizioni viste in precedenza, che opponevano i diritti umani agli interessi geopolitici, si ritrovano qui nel binomio oppositivo fra diritto alla vita e diritto dei vivi. Seguendo questa chiave interpretativa, si è potuto andare oltre quanto viene definito da Alberto López Bargados come la “poetica del punto morto” che si ostina e si limita a denunciare la situazione di esilio del popolo sahrawi, per evidenziare invece le corresponsabilità nella riproduzione di tale situazione, dovute anche alle logiche perverse dell’aiuto umanitario e della cooperazione internazionale47 Di fronte alla complessità della situazione a cui ci confrontiamo occorre, in definitiva, portare uno sguardo critico e autocritico sull’azione umanitaria, sui rapporti di potere e su tutto ciò che fa in modo che il mantenimento di quel “punto morto” sia divenuto parte dell’equilibrio.

La dimensione campi profughi

Il quarto e ultimo capitolo di questo lavoro è conseguente rispetto ai precedenti, ma si caratterizza per l’obiettivo di affinare la riflessione relativa alla dimensione dei campi profughi e alle strategie identitarie che una popolazione rifugiata può sviluppare. Alcune considerazioni generali e preliminari sui campi profughi intesi come entità sociali e territoriali saranno indispensabili per giustificare poi un’interpretazione che operi dei parallelismi fra questi ultimi e le cosiddette istituzioni totali. A una prima parte più astratta e generale seguiranno dunque numerosi richiami alla situazione dei campi profughi sahrawi in Algeria. Sarà poi la seconda parte del capitolo a dedicare maggior attenzione alla popolazione sahrawi rifugiata, in quanto si chinerà su alcune strategie identitarie sviluppate: dalla resilienza alla resistenza.

Realtà parallele

Orru Dessy, riprendendo il concetto di Marcel Mauss, definì l’azione umanitaria come un “fatto sociale totale” per la complessità delle dimensioni del sociale ad essa legate, soprattutto in riferimento all’incontro fra le alterità e alle implicazioni per la popolazione destinataria:48 processi di assimilazione, relazioni di dominazione e forme di resistenza ne sono un esempio. Per quanto riguarda la dimensione dei campi profughi, il fatto sociale totale che si manifesta attraverso la circolazione degli aiuti è soltanto un’ulteriore prova di come all’interno di quei perimetri fisici e umani si sviluppino un insieme di dinamiche legate al contesto e condizionate dalla presenza di diversi attori. Benché si tratti di luoghi “ai margini”, ciò non significa in nessun modo che non presentino forme di vita sociale. Vi è però una caratteristica comune alla totalità dei campi profughi: il senso di confinamento e di privazione di libertà. A ciò vanno aggiunte, secondo Michel Agier, altre quattro caratteristiche: extraterritorialità, eccezione, esclusione, attesa. Ne consegue che si tratta di luoghi – ma forse sarebbe meglio dire “non-luoghi”, d’accordo con Marc Augé – per persone “in esubero”, in cui vige un sistema giuridico e simbolico diverso rispetto all’esterno e che marcano una differenza radicale fra il “dentro” e il “fuori”. Sono infine luoghi di attesa, generalmente di un cambiamento immediatamente percettibile.49

Per alcune loro caratteristiche, i campi profughi – o almeno parte di essi – possono essere equiparati a quelle che Erving Goffman ha denominato “istituzioni totali”, definendole come segue:

Un’istituzione totale può essere definita come il luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone che – tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo – si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrativo.50

Fra le caratteristiche elencate dall’autore, quella che più ci riguarda in quanto ci riporta a quanto visto nei capitoli precedenti, è la seguente: “Ogni fase delle attività giornaliere si svolge a stretto contatto di un enorme gruppo di persone, trattate tutte allo stesso modo e tutte obbligate a fare le medesime cose.”51 Appare infatti evidente il legame con la distribuzione dell’aiuto umanitario, inteso qui nei beni alimentari di prima necessità destinati alla pressoché totalità della popolazione dei campi profughi: tutti i sahrawi confinati nei campi profughi ricevono gli stessi e sempre uguali tipi di alimenti, che non hanno scelto loro ma che vengono loro offerti in “dono”, obbligandoli ad adattarsi a precisi consumi alimentari e soprattutto imponendo loro una postura passiva. Del resto, riferendosi sempre alle istituzioni totali, Goffman ammette che il punto cruciale sta nel dover gestire i bisogni umani di intere masse di persone, per cui tende ad accentuarsi la già presente distinzione fondamentale fra le persone controllate – gli internati – e il cosiddetto staff che le controlla.52 Le agenzie e gli attori dell’azione umanitaria presenti nei campi profughi sahrawi e chi opera dietro di loro, tendono a svolgere un compito molto simile a quello dello staff nelle istituzioni totali, in quanto mentre mantengono in vita un’intera popolazione esercitano, come direbbe Foucault, un forte controllo sociale attraverso la sorveglianza e, se necessario, la punizione. È quanto si è anticipato in precedenza rispetto al ruolo di regolatore dell’effervescenza sociale assunto dall’aiuto umanitario.

Il risultato della passività, della marginalizzazione, dell’“invisibilizzazione” e del controllo imposti agli “internati”, può comportare, in situazioni di “prigionia” di lunga durata come è il caso dei sahrawi nei campi profughi, la cosiddetta “morte civile”, che si definisce come la spoliazione di diritti e capacità di azione, di possedimenti, ma anche di legami e di radici. La “nudità” non è infatti solo fisica ma anche simbolica, emotiva e identitaria, come dimostra il fatto che nelle istituzioni totali la “spoliazione” o “riduzione” del “sé” avviene come prima cosa attraverso il rito di iniziazione della sostituzione del nome:53 come abbiamo visto nel corso di questo lavoro, tale processo accadde effettivamente ai danni della popolazione sahrawi, benché non tanto nei campi profughi quanto al momento dell’invasione marocchina.

Come conseguenza logica della nudità, ritroviamo nell’infinita e insostenibile politica degli aiuti umanitari alla popolazione sahrawi quanto scrive Goffman: “Una volta che l’internato sia spogliato di ciò che possiede, l’istituzione deve provvederne un rimpiazzamento, che tuttavia consiste in oggetti standardizzati, uniformi nel carattere ed uniformamente distribuiti.”54

Poco sopra si è accennato a una quarta caratteristica delle istituzioni totali, ossia il fatto che sono luoghi di attesa. La dimensione temporale è infatti centrale: “(…) in molte istituzioni totali, è molto diffusa fra gli internati la sensazione che il tempo passato nell’istituto sia sprecato, inutile, o derubato dalla propria vita; si tratta di un tempo che deve essere cancellato.”55 In una situazione di confinamento forzato di oltre quarant’anni come quella in cui sono a costretti a vivere i sahrawi nei campi profughi, l’attesa e il tempo morto sono forse il dramma principale, specialmente per le giovani generazioni. È quanto ribadisce la governatrice della Wilaya di Ausserd:

Il 70% della popolazione dei campi profughi è costituita da giovani, e molti di loro hanno studiato, si sono laureati. Ma poi si rendono conto che qui non hanno nessuna prospettiva, nessun modo di occupare il tempo. E questo senso di vuoto, questo infinito tempo vuoto, può comportare grandi rischi, specialmente in una regione come questa del Nord Africa: penso al terrorismo, al crimine organizzato, ai traffici di droga. Questi sono i rischi in cui possono cadere i nostri giovani, a causa della rabbia, della frustrazione o semplicemente della mancanza totale di prospettive.56

A conclusione di questo sottocapitolo, preme ribadire che i campi profughi in generale e quelli sahrawi in Algeria nella fattispecie, richiamano molte delle caratteristiche delle istituzioni totali: questo ci consente di evidenziare una relazione intrinseca fra i campi profughi, le istituzioni totali e la circolazione dell’aiuto umanitario. Naturalmente, anche in questo caso è bene ricordare che un’analisi dell’aiuto umanitario e delle sue implicazioni in una data regione non può prescindere da una contestualizzazione generale, e quindi è fondamentale – come si è fatto soprattutto nella prima parte di questo lavoro – riflettere sui rapporti di potere in atto.

Nella seconda parte di questo quarto capitolo ci concentreremo sulle mobilitazioni identitarie in atto, per capire quale sia il margine di manovra di una popolazione considerata come vittima passiva.

Identità e resistenza

Los saharauis viven en una doble prisión, en el espacio y el tiempo. El exilio es parte de ellos. Los que viven en el exilio argelino llevan su tierra consigo. Los que viven en su tierra bajo la ocupación marroquí, sienten el exilio con ellos. La ocupación es el exilio. La ausencia de justicia es el exilio. Es muy triste vivir bajo la represión y la ocupación, y es durísimo vivir el exilio en el desierto extremo argelino.57

Il popolo sahrawi – se così può essere definito – è tradizionalmente nomade ma si è ritrovato a vivere in un territorio recintato e occupato oppure in un immenso campo profughi alle dipendenze totali dagli aiuti internazionali. La questione identitaria è centrale tanto nel conflitto quanto nella ricerca di una soluzione di pace; il Regno del Marocco e altri attori internazionali hanno fatto di tutto nel corso degli anni per affievolire il sentimento identitario sahrawi, mentre al contempo la resistenza all’occupazione e all’esilio, non potendo trovare riscontri nella concretezza dei fatti, ha trovato terreno fertile su questo piano simbolico. Del resto, l’esilio dei sahrawi non è soltanto il confinamento fisico nei campi profughi in Algeria, ma anche la calata del sipario avvenuta ormai da tempo sulla loro situazione, e pure la marginalizzazione del loro status dalle categorie ufficiali.

Se classificare significa fare ordine, se categorizzare significa esercitare un potere, il caso dei sahrawi dimostra quale sia il loro posto nelle gerarchie mondiali. Il popolo sahrawi è un popolo diviso fra i Territori Occupati e i campi profughi, ma non solo: essendo il Sahara Occidentale riconosciuto come un Territorio non autonomo, risultano diversi tipi di status per i sahrawi. Ad alcuni viene riconosciuta una “nazionalità sahrawi” sulla base del censimento fatto dalle Nazioni Unite nel 1999 in vista del Referendum per l’Autodeterminazione; altri – pochi – posseggono una cittadinanza della Repubblica Araba Democratica Sahrawi, riconosciuta però solamente da alcuni Stati e solo a chi risiede nei cosiddetti “Territori Liberati”; la maggior parte della popolazione ha lo status di “senza patria”, trovandosi nei campi profughi in una condizione a metà strada fra quella del rifugiato e dell’esiliato; un certo numero di persone, infine, ha lo status di migrante o rifugiato politico in altre parti del mondo.58 Tutte le categorie, e fra loro quelle appena enumerate, sono costrutti storici che nella configurazione degli Stati-Nazioni acquistano valore e alle quali vengono riconosciuti più o meno diritti. I sahrawi, in quanto cittadini di uno Stato in attesa, sono esclusi da buona parte di questi ultimi, a rivelazione di un’ulteriore contraddizione rispetto alla dimensione universale dei diritti umani.

Sarebbe sicuramente opportuno e necessario procedere a una messa in discussione dell’intera struttura dello Stato-Nazione, in quanto prevede e produce l’esclusione di intere fasce di popolazione e il loro confinamento in “zone cuscinetto” come i campi profughi. In questa sede, però, converrà limitarci a considerare le strategie di sopravvivenza dei sahrawi, poiché dimostrano che per quanto marginalizzate e denudate, anche le popolazioni più vulnerabili occupano un ruolo attivo, quantomeno nella loro autodefinizione identitaria. Così come i palestinesi, anche per i sahrawi si parla di resilienza o più precisamente di re-esistenza, in quanto si ha a che fare con una strategia identitaria che si articola anche negli atti quotidiani, nei rituali e nel semplice fatto di conservarli, permettendo alla comunità di riconoscersi come popolo anche all’interno di un quadro geopolitico globale in cui il proprio destino è condizionato da decisioni prese altrove.59 La stessa dimensione-campi profughi acquista così un valore nel processo di conservazione, adattamento e reinvenzione identitaria:

Les camps sont des endroits où naissent de nouvelles «aires culturelles», où les modes de vie et les représentations se mêlent parmi les différentes personnes venues y vivre, et où il se crée une superposition entre les habitudes d’avant et les conditions auxquelles on a du s’adapter et qui ont même donné lieu à des apprentissages. Il faut aussi penser aux rencontres non seulement entre personnes qui vivent dans les camps, mais aux relations avec les internationaux venant d’ailleurs (souvent du Nord du monde) et de leurs représentations.60

Alla luce di quanto appena visto, riesce più facile comprendere la duplice retorica del Fronte Polisario relativa alla denuncia della dipendenza dall’esterno da un lato e alla rivendicazione della gestione autonoma dei campi profughi dall’altro. Per una popolazione che non può nemmeno decidere che cosa mangiare, la possibilità di quantomeno autodistribuire gli aiuti internazionali è una pratica fondamentale nel processo di “riappropriazione della propria sopravvivenza”, e quindi è un modo per sottrarsi al ruolo passivo a cui è stata confinata. Sebbene corra il rischio di contribuire alla normalizzazione della propria situazione emergenziale, l’autorganizzazione dei campi profughi e l’ottenimento di un alto livello di efficienza consacra la capacità di “uscire dal caos” e rappresenta un tassello di re-esistenza estremamente rilevante nel processo di affermazione identitaria. Certamente, questo è soltanto uno dei vari aspetti della resistenza sahrawi: ne troviamo altri più legati a forme di attivismo politico e quasi esclusivamente non-violento (risultato anche questo, fra le altre cose, delle influenze dei finanziamenti provenienti dall’estero tramite le ONG e dalla retorica dei Diritti Umani), soprattutto nei Territori Occupati e che ha visto il suo culmine dieci anni fa nell’organizzazione del campeggio di protesta a Gdeim Izik, vicino a El Ayoun. Le diverse forme di resistenza del popolo sahrawi trovano un comune denominatore nell’Intifada permanente dichiarata nel 2005 e oscillano fra un prima e un dopo imprescindibili: il prima è temporale ed è rappresentato dalla memoria storica collettiva, risorsa indispensabile per la costruzione (spesso artificiale) di un passato e di un sentire comune; il dopo è geografico e parte dell’immaginario, richiama l’attesa di una risoluzione del conflitto e il ritorno nelle terre del Sahara Occidentale libero. Nel qui e ora del presente, rimane il vincolo fra territorio e identità:

La nostra non è soltanto una lotta per un paese, è una lotta per l’identità, per quello che siamo: sahrawi, non algerini, non marocchini, non mauritani; siamo sahrawi. E naturalmente l’identità non può esistere senza una terra. La terra è una grande parte dell’identità. Per questo io sono convinta che anche chi è disposto ad accettare l’occupazione del Marocco pur di vivere una vita diversa da questa, se il Sahara Occidentale fosse indipendente domani, tornerebbe con noi.61

Conclusioni

L’Agenzia ONU per i Rifugiati nel 2004 ha definito il concetto di “rifugio prolungato” come l’insieme di quelle situazioni in cui i rifugiati si trovano in una condizione di lunga permanenza e di difficile soluzione, in una sorta di limbo. Una situazione in cui le loro vite possono non essere direttamente a rischio, però i loro diritti di base, le loro necessità economiche, sociali e psicologiche continuano a non essere soddisfatte nemmeno dopo svariati anni di esilio. Un rifugiato in una condizione simile è spesso incapace di liberarsi dalla dipendenza totale dall’assistenza proveniente dall’esterno.62

La definizione di “rifugio prolungato” chiama in causa direttamente i sahrawi e sembra riassumerne la condizione, come se questa rispondesse agli effetti già visti e previsti nelle pagine della storia e sui manuali dell’azione umanitaria. Una situazione da cui pertanto non sembra esserci via d’uscita, almeno nell’immediato. La domanda che sorge più spontanea è quindi sicuramente quel cosa fare? a cui interi studi sono stati dedicati e sulla quale gli stessi attori più direttamente implicati continuano a divergere. In questo senso, si sviluppano importantissimi dibattiti sulla tensione fra autodeterminazione e autonomia – che riguarda anche altri Stati senza patria e popoli in regime di occupazione – oppure su misure concrete come la proposta di ricollocare parte della popolazione dei campi profughi in Algeria nei Territori Liberati del Sahara Occidentale. Per quanto ci riguarda, è importante ribadire che il presente lavoro non si focalizza direttamente su questo tipo di domanda e quindi non è chiamato a proporvi una possibile risposta. Il presente lavoro, l’abbiamo visto, si articola attorno a tre domande ricorrenti e fondamentali, che ci obbligano a portare uno sguardo particolare sull’intera questione del Sahara Occidentale: 1. Quali fattori o attori hanno contribuito a far cadere questa emergenza umanitaria in un’impasse da cui non sembra esserci via d’uscita? 2. Come interpretare un intervento umanitario internazionale della durata di 45 anni e destinato a persistere?; 3. Quali implicazioni si possono identificare per la popolazione “beneficiaria”, e quali strategie ha saputo mettere in atto quest’ultima?

Lungo i quattro capitoli affrontati, le possibili risposte a queste domande hanno delineato alcune contraddizioni in essere fra Diritti Umani e Diritto Internazionale da un lato e interessi economici e geopolitici dall’altro; contraddizioni che a loro volta assumono svariate declinazioni. Abbiamo visto, inoltre, che l’aiuto umanitario internazionale è parte della stessa ambiguità, poiché svolge un ruolo funzionale a un certo tipo di equilibrio mondiale e poiché rivela un’importante dicotomia fra la sua narrazione ufficiale e il piano politico dal quale sorge. In altri termini, la prospettiva metodologica adottata ci ha permesso di inserire la questione del Sahara Occidentale all’interno di un quadro internazionale di relazioni di potere, e di considerare lo stesso aiuto umanitario come un attore di questo scacchiere: le sue corresponsabilità nella definizione dell’impasse che attanaglia la questione e che non lascia prevedere una soluzione politica e reale all’orizzonte sono evidenti.

Rimane che la domanda più scontata, quel cosa fare? che è anche riflesso di un senso di colpa che inevitabilmente ci portiamo appresso, è un punto nodale su cui è difficile non chinarsi quantomeno da lontano. Andrà quindi detto in questa sede che per gli attori internazionali – siano essi professionisti dell’aiuto umanitario, ricercatori accademici, attivisti, giornalisti o semplicemente osservatori interessati – il primo passo da seguire sarebbe sicuramente quello di assumere una postura riflessiva verso sé stessi, verso il proprio operato e da lì più in generale verso l’intero contesto. Si tratterebbe in seguito di procedere a un’analisi precisa dei bisogni reali della popolazione locale, attraverso una metodologia orizzontale e co-partecipativa: ciò consentirebbe di valutare da vicino anche l’insieme degli effetti che l’azione umanitaria – e non solo – porta con sé sul breve, medio e lungo termine, così da saper introdurre delle variazioni laddove necessario. Infine, sarebbe forse l’occasione per riflettere su un aspetto per certi versi controverso e molto spesso relegato a una posizione secondaria, ossia l’importanza dell’invisibile – o meglio del non direttamente tangibile – nell’azione umanitaria e nel cambiamento sociale. A fronte di un insieme di attori cosiddetti tecnici dell’umanitario e di progetti di cooperazione in grado di restituire frutti nell’immediato, l’analisi dei bisogni reali in un dato contesto potrebbe rivelare che l’urgenza risiede piuttosto nel lavoro sulla memoria collettiva, sull’elaborazione di traumi e violenze fisiche o simboliche, sulle rappresentazioni identitarie, sull’immaginario. Così, onde poter costruire poi un ponte che garantisca effetti concreti sul mondo “reale”, si tratterebbe di investire tempo – e non solo – in progetti quali commissioni di verità e giustizia, rivendicazioni per maggiori diritti, processi di empowerment e reali democratizzazioni.

Il Sahara Occidentale è un conflitto dimenticato, i sahrawi vivono divisi fra l’occupazione e i campi profughi, ma in entrambi i casi è valido il concetto di Foucault che li definirebbe “rinchiusi fuori”, sospesi nello spazio fra il “qui e il là”, nel tempo fra il “prima e il dopo” e nell’identità fra il “sé e l’altro”.63 Eppure, come abbiamo potuto riscontrare durante tutto il lavoro, varie sono le strategie di resistenza e resilienza messe in atto, a dimostrazione che anche una popolazione rifugiata può abitare i luoghi di transizione.

L’ultima domanda che si pone e che si iscrive nella scia della postura riflessiva propugnata poc’anzi, interpella nuovamente “noi”, benché inteso ora in senso più ampio: vogliamo davvero essere parte complice di una società che crea i campi profughi e radicalizza l’alterità, che categorizza ed esclude il diverso, che riproduce meccanismi di disumanizzazione?64Si potrebbe dunque cominciare a riflettere sul concetto sempre più liquido di frontiera e di Stato-Nazione, sui processi di “invisibilizzazione” del diverso e sulla politica migratoria basata sull’attesa; si potrebbero rivalutare le modalità dell’azione umanitaria ufficiale in un mondo interconnesso, la stessa che risponde a una ritualità propria e che a scadenze regolari propone obiettivi tanto ambiziosi quanto lungi dal mettere in discussione la struttura di base che ne ostacola il raggiungimento. L’ennesimo paradosso. Prima, però, si tratta forse di guardare ai campi profughi come fossero uno specchio, in modo da provare a definirci. Da lì, poi, esercitare la capacità di ricercare attentamente – e valorizzare, partecipandovi – quel che esiste di sincero e solidale, riflessivo e analitico, volto a promuovere il cambiamento sociale in termini di emancipazione individuale e collettiva. In altre parole, scomodando Calvino, si tratta forse di “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”65

Bibliografia

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Sitografia

Testimonianze

Testimonianza 1: Omeima Abdeslam, Rappresentante del Fronte Polisario a Ginevra per la Svizzera e le Nazioni Unite.

Testimonianza 2: Sidi, attivista della Confederazione Sindacale dei lavoratori e dei disoccupati Sahrawi, El Ayoun.

Testimonianza 3: Omeima Abdeslam, Rappresentante del Fronte Polisario a Ginevra per la Svizzera e le Nazioni Unite.

Testimonianza 4: Moustapha Lemaschloufi, rappresentante dell’Associazione dei famigliari dei prigionieri politici sahrawi.

Testimonianza 5: Campi profughi Sahrawi, Algeria.

Testimonianza 6 & 9: Governatrice della Wilaya di Auserd, Campi profughi Sahrawi, Algeria.

Testimonianza 7 & 8: Governatrice del Distretto di Tifariti, Wilaya Smara, Campi Profughi sahrawi, Algeria.

Testimonianza 10: Najla, rifugiata sahrawi, Smara, Campi profughi sahrawi, Algeria.

 

Note

1: Cfr. GIMENO MARTIN Juan Carlos, ¿Eligir entre Paz y Justicia? Apuntes para la Resolución del conflicto del Sáhara Occidental, Universidad Autónoma de Madrid, Departamento de Antropología Social y Pensamiento Filosófico Español, 2016, p. 169.

2: Cfr. MATO Daniel, No estudiar al subalterno, sino estudiar con grupo sociales subalternos o, al menos, estudiar articulaciones hegemonicas de poder, in Desafios, No. 26-1, pp. 237-264

3:Cfr. FRESIA Marion & LAVIGNE-DELVILLE Philippe, Au coeur des mondes de l’aide internationale, Marseille, IRD Editions, Editions Karthala-Apad, 2018.

4: Cfr. CORREALE Francesco & GIMENO MARTIN Juan Carlos, Sahara occidental: mémoires coloniales, regards postcoloniaux, in Les Cahiers d’EMAM [En ligne], n. 24-25, 2015.

5:Cfr. GIMENO MARTIN Juan Carlos, Sahara occidental: Última colonia de África, in Tensões Mundiais, Fortaleza v. 13, n. 25, 2017, p. 18

6:Cfr. CORREALE Francesco & GIMENO MARTIN Juan Carlos, Sahara occidental: mémoires coloniales, regards postcoloniaux, op. cit.

7: Cfr. GIMENO MARTIN Juan CarlosSáhara occidental: Última colonia de África, op. cit.

8: Cfr. FIDDIAN-QASMIYEH Elena, El prolongado desplazamiento saharaui. Retos y oportunidades más allá de los campamentos, Universidad de Oxford, Centro de Estudios sobre Refugiados, Departamento de Desarrollo Internacional de Oxford, 2011, p. 7.

9: Cfr. GIMENO MARTIN Juan Carlos, Sáhara occidental: Última colonia de África, op. Cit., pp. 20-21.

10: Cfr. GIMENO MARTIN Juan Carlos, ¿Eligir entre Paz y Justicia? Apuntes para la Resolución del conflicto del Sáhara Occidental, op. cit.

11: Testimonianza 1: Omeima Abdeslam, Rappresentante del Fronte Polisario a Ginevra per la Svizzera e le Nazioni Unite.

12: Cfr. RUIZ MIGUEL Carlos, Refugiados y emigrantes: transformaciones del Sahara Occidental por la pluralidad de situaciones espaciales y personales tras la invasion del territorio, in Direitos Humanos, migracoes e rifugio, Editora UEPG, pp. 248-249.

13: Cfr. MOHSEN FINAN Khadija, Sahara Occidental: divergences profondes autour d’un mode de règlement, in L’Année du Maghreb, 5.10.4000/anneemaghreb.697, 2011.

14 : Cfr. GIMENO MARTIN Juan Carlos, Eligir entre paz y justicia? Apuntes para la resolución del conflicto del Sahara Occidental, op. cit., p. 177.

15: BESENYO Janos, Western Sahara, Pecs, Publikon Piblisher, 2009, p. 25.

16: https://www.bbc.com/mundo/noticias-51283951

17: Testimonianza 2: Sidi, attivista della Confederazione Sindacale dei lavoratori e dei disoccupati Sahrawi, El Ayoun.

18: DIAZ GUAJARDO Natalia, La Unión Europea, España y el Sahara Occidental: la Política Exterior de Cooperación y los Acuerdos Comerciales, Universitad Autonoma de Sinaloa, Facultad de Estudios Internacionales y Politicas Publicas, Estudios Contemporaneos de Europa, 2014, pp. 8-9.

19: https://www.eldiario.es/desalambre/Eurocamara-UE-Marruecos-Sahara-Occidental_0_867213567.html

20: Testimonianza 3: Omeima Abdeslam, Rappresentante del Fronte Polisario a Ginevra per la Svizzera e le Nazioni Unite.

21: Testimonianza 4: Moustapha Lemaschloufi, rappresentante dell’Associazione dei famigliari dei prigionieri politici sahrawi.

22: Cfr. BARRENADA, R. Ojeda García (eds.), Los Territorios bajo control marroqui, nuevo escenario de la contestacion politica, inSahara Occidental, 40 años después, Madrid: Los Libros de la Catarata, 2016, pp. 182-183.

23: Cfr. Ivi, p. 183.

24: Cfr. GIMENO MARTIN Juan Carlos, ¿Eligir entre Paz y Justicia? Apuntes para la Resolución del conflicto del Sáhara Occidental, p. 178.

25: Cfr. GIMENO MARTIN Juan Carlos, El Sáhara para los saharaui: Re-existencia saharaui y colonialidad global, in Contra Relatos desde el Sur, Apuntes sobre Africa y Medio Oriente, 2014, pp. 33-35.

26: Cfr. GIMENO MARTIN Juan Carlos, El Sáhara para los saharaui: Re-existencia saharaui y colonialidad global, op. cit., p. 22.

27: Cfr. FIDDIAN-QASMIYEH Elena, El prolongado desplazamiento saharaui. Retos y oportunidades más allá de los campamientos, op. cit.

28: Tipo di deserto con aree consistenti in terreni aridi, brulli, altopiani rocciosi e con presenza di pietrisco dalle forme aguzze. Cfr.https://it.wikipedia.org/wiki/Hammada

29: Testimonianza 5, Campi profughi Sahrawi, Algeria.

30: Cfr. FIDDIAN-QASMIYEH Elena, El prolongado desplazamiento saharaui, op. cit., p. 12.

31: UNHCR, Saharawi Refugees in Tindouf, Algeria, Total In-Camp Population, UNHCR The UN Refugee Agency, Official Report, 2018, p. 4.

32: Testimonianza 6: Governatrice della Wilaya di Auserd, Campi profughi Sahrawi, Algeria.

33: HARREL-BOND Barbara & VOUTIRA Efithia, “Successful” Refugee Settlement: Are Past Experiences Relevant, in CERNEA M.M. & MCDOWELL C., Risks and Reconstruction: Experiences of Resettlers and Refugees, Washington D.C., The World Bank, 2000.

34: Ibidem.

35: HARREL-BOND Barbara, Imposing Aid, Emergency Assistance to Refugees, New York, Oxford University Press, 1986, p. 17.

36: Cfr. Ibidem.

37: Cfr. LANGA MARTINEZ, Laura, Contradicciones de la “ayuda” en los campamentos Saharauis. De los hijos e hijas de las nubes a sujetos humanitarios universales, in Revista Antropologia de la orientacion publica, n° 0, Texto 6, 2016, Universitad Autonoma de Madrid (UAM), Departamento de Antropologia Social, pp. 139.

38: Cfr. UNHCR, Saharawi Refugees in Tindouf, op.cit., p. 3.

39: Cfr. LANGA MARTINEZ, Laura, Contradicciones de la “ayuda” en los campamentos Saharauis, op. cit., pp. 127.

40: Testimonianza 7: Governatrice del Distretto di Tifariti, Wilaya Smara, Campi Profughi sahrawi, Algeria.

41: Cfr. FIDDIAN-QASMIYEH Elena, El prolongado desplazamiento saharaui, op. cit., p. 23.

42: Cfr. FIDDIAN-QASMIYEH Elena, El prolongado desplazamiento saharaui, op. cit., pp. 23-24.

43: Testimonianza 8: Governatrice del Distretto di Tifariti, Wilaya Smara, Campi Profughi sahrawi, Algeria.

44: Cfr. FIDDIAN-QASMIYEH Elena, El prolongado desplazamiento saharaui, op. cit., p. 138.

45: Cfr. FASSIN Didier, El irresistible ascenso del derecho a la vida. Razón humanitaria y justicia social, in Revista de Antropología Social, No. 19, 2010, pp. 191- 204.

46: HARREL-BOND Barbara, Imposing Aid, op. cit., p. 27.

47: Cfr. CORREALE Francesco & GIMENO MARTIN Juan Carlos, Sahara occidental: mémoires coloniales, regards postcoloniaux, op. Cit.

48: Cfr. FIDDIAN-QASMIYEH Elena, El prolongado desplazamiento saharaui, op. cit., p. 121.

49: Cfr. AGIER Michel, Un monde de camps, Paris, Editions La Découverte, 2014, p. 16.

50 : Cfr. GOFFMAN Erving, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Torino, Edizioni di Comiunità, 2001, p. 29.

51: Ivi, pp. 35-36.

52: Ivi, p. 36.

53: Ivi, pp. 44-48.

54: Cfr. GOFFMAN Erving, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, op. cit., pp. 48-49.

55: Ivi., p. 94.

56: Testimonianza 9: Governatrice della Wilaya di Auserd, Campi profughi sahrawi, Algeria.

57: Cfr. GIMENO MARTIN Juan Carlos, El Sáhara para los saharaui: Re-existencia saharaui y colonialidad, op. cit.

58 : Cfr. CARLOS RUIZ, Miguel, Refugiados y emigrantes: Transformaciones del Sahara Occidental por la pluralidad de situaciones espaciales y personales tras la invasion del territorio. La necesaria distincion entre exiliados, asilados, refugiados, emigrantes, ciudadanos y apatridas, in Direitos humanos, migracoes e refúgio, Ponta Grossa: Ed. UEPG, 2019.

59: Cfr. GIMENO MARTIN Juan Carlos, El Sáhara para los saharaui: Re-existencia saharaui y colonialidad global, op. cit., p. 39.

60: AGIER Michel, Un monde de camps, op. cit, p. 18.

61 : Testimonianza 10: Najla, rifugiata sahrawi, Smara, Campi profughi sahrawi, Algeria.

62 : Cfr. LANGA MARTINEZ, Laura, Contradicciones de la “ayuda” en los campamentos Saharauis, op. cit., p. 129: Comitato permanente del Comitato esecutivo del Programma dell’Alto Commisariato, 30a sessione, EC/54/SC/CRP.14, 10 giugno 2004.

63: Cfr. ATERIANUS-OWANGA, Alice & MUSSO, Sandrine, Anthropologie et migrations : mises en perspective, in : Lectures anthropologiques, Revue de comptes rendues critiques, 2017/3, p. 10.

64 : Cfr. AGIER Michel, Un monde de camps, op. cit, pp. 24-25.

65 : CALVINO Italo, Le città invisibili, Einaudi, 1972.